La pelle della pittura, (note in margine a una mostra veneziana)
di Maurizio Barberis
Ut pictura poesis. Tutta la pittura di Tuymans sembra far inconsciamente riferimento alla locuzione oraziana, diventata il tormentone dell’arte di questi ultimi secoli, laddove il termine di riferimento dell’immagine non è più un oggetto reale, colto nella sua impossibile immediatezza, bensì un ‘phantasmata’ letterario, che appare come un sovrapposizione mnemonica di ciò che percepiamo come l’essenza figurativa del dipinto stesso.
Per sua stessa ammissione, l’opera del pittore fiammingo appartiene ad un percorso in cui la memoria, i frammenti di ricordi personali, si fanno personalissima visione poetica da cui emerge una sorta di disagio programmato, che si trasforma nell’occhio dell’osservatore in un ricordo condiviso di fatti e accadimenti del nostro più o meno recente passato.
E’ il caso dei continui riferimenti al nazismo, al suo orrore oscuro, vissuto come un’oscena quotidianità del male, che si trasforma nel suo dipingere in una ieratica gamma di terre chiare, come se il ricordo di questi non sopportasse l’uso di colori troppo definiti, di contorni troppo netti. E’ il caso, p.e., di Gaskammer, uno spazio colto in una sospesa, quanto assurda, normalità d’accadimenti. La mostra veneziana, ottanta opere ospitate a palazzo Grassi, prende nome dal libro di Curzio Malaparte, La Pelle. Ma a noi sembra che più che ai codici malapartiani la sua pittura si apparenti maggiormente con la letteratura di W.G. Sebald, con testi come Austerlitz,p.e. uno straordinario viaggio a ritroso nella tempo e nella memoria di Jacques Austerlitz, professore londinese e bambino ebreo deportato, laddove immagine, fotografia e letteratura si rincorrono per restituire al lettore il senso di una memoria che mal sopporta il riaffiorare dello scandalo nazista. Così Tuymans rinserra, attraverso la sua luminescente gamma cromatica, frammenti personali, ricordi d’infanzia, luoghi attraversati e dimenticati, che si intrecciano forse con il disagio di un’appartenenza al mondo chiaro della quotidianità borghese.
Il riferimento alla fotografia è evidente e continuo, esplicitamente dichiarato dall’autore, che spesso ricava i suoi dipinti da immagini ‘rubate’ al mondo dei media. Per Caroline Bourgeois, curatrice della mostra veneziana, « pur ispirandosi a immagini esistenti il suo approccio non è mai quello della rappresentazione perfetta, ma al contrario quello di prendersi un rischio dipingendole. L’artista sostiene che la pittura debba comportare un vuoto, un difetto, e che è in questa “assenza” che l’osservatore può ricostruire la propria versione della storia, la sua narrazione. In questo senso, si può definire il suo lavoro concettuale più che figurativo…”
Ma mentre la relazione tra letteratura e pittura è densa, pur nelle ambiguità dei vuoti e delle prospettive concettuali, viceversa il rapporto tra fotografia e immagine dipinta non rasserena del tutto l’osservatore dotato di un certo spirito critico, laddove non sempre si avverte la necessità di questa interdipendenza, e la ricerca di un’autonomia propria del linguaggio pittorico non può essere oscurata da una figurazione che pur sempre rimanda ad un oggetto reale e concreto, ovvero la fotografia stessa, che in questo modo sostituisce l’esperienza diretta del soggetto rappresentato, facendosi quindi ancora una volta testimone di un ‘realismo’ non dichiarato e sfuggente ma quanto mai ambiguo.