Della follia minimalista
di Maurizio Barberis
La prima retrospettiva dalla morte di Donald JUDD, il più celebre esponente del minimalismo americano, al Museum of Modern Art di NY
Espressione più estrema dell’ansia iconoclasta dell’arte moderna occidentale, il cosiddetto movimento minimalista, chiamato anche iper-prosaicismo o letteralismo, muove i suoi primi passi nell’America degli anni ’60, quando le azioni dell’espressionismo astratto vengono messe in crisi dalla risorgente poetica della pop-art, che affermerà per molti anni il primato artistico della superpotenza militare americana nel mondo. Come giustamente aveva fatto notare Renato Barilli in un suo saggio di qualche anno fa, il momento di reazione ai visceralismi dell’espressionismo astratto presentava due facce complementari, ma diverse nelle modalità espressive: quella più volgarotta e di facile consumo legata alle forme del marketing industriale, la pop art, e quella filosoficamente e concettualmente più complessa della cosiddetta op-art, derivata anch’essa dalla presa d’atto del predominio delle tecnologie nelle società industriali e post industriali. Da questo secondo corno si stacca, non senza polemiche, la corrente minimalista che vede come esponenti più radicali Donald Clemence Judd (b.1928), Carl Andre e Bob Morris, quest’ultimo con scelte formalmente meno radicali e più vicine a quello che verrà chiamato un ‘dadaismo ottuso’ (Barilli). Le scelte poetiche, se così si possono chiamare, di Judd e Andre, vengono filtrate dalle idee fenomenologiche dei vari Merleau Ponty, Robbe-Grillet e soprattutto da Sartre, per una sorta di riduzionismo estremo che vuole privare l’opera di qualsivoglia referenzialità, interna ma anche esterna. L’opera nega quindi ogni assunto teorico o concettuale, riducendo il suo valore alla semplice relazione d’uso tra spettatore e oggetto, libero di rileggere e re-interpretare, almeno in apparenza, le funzioni fondamentali di spazio e tempo. Si crea così, nelle intenzioni degli autori, un valore assoluto, che prescinde da qualsivoglia rimando/relazione ad un altrove, estetico, storico o emozionale, una sorta di superficie assoluta (Raymond Ruyer) che in quanto opera in se si afferma come prima e unica, pur nella serialità delle sue componenti. La scelta dei materiali, derivati da processi di trasformazione industriale, quindi anonimi per definizione, e l’accento sul processo progettuale dell’oggetto svuotato in modo ossessivo e monotonamente ripetitivo (come le ‘floorness’ di Andre) apparentano in modo leggermente equivoco il movimento americano a certe ricerche di quegli stessi anni legate al nascente predominio del design nell’industria contemporanea, in particolare la scuola di Ulm e del suo principale esponente Thomas Maldonado. Naturalmente questo riduzionismo ossessivo non tiene sufficientemente conto, nel suo materialismo elementare, di quello che può essere definita come una ‘trascendenza à rebours’, implicita della materia stessa, composta di fatto da una serie di relazioni infinite e decrescenti, una sorta di scatola cinese di cui non si intravede la fine. Di fatto qualsiasi materiale, minimalismo o non minimalismo, contiene un’infinita e imprescindibile quantità di relazioni, da cui neanche il più feroce e radicale minimalista può di fatto sfuggire. Un’utopia quindi, in cui il lupo si traveste da agnello, per non voler considerare la complessità dell’immagine e i suoi rimandi immateriali ( sensazioni ed emozioni), che, volenti o nolenti agiscono e traggono origine nella psiche e nell’anima dell’ uomo.