Yuan Jai, una pittrice a Taiwan
by Maurizio Barberis
La grande immagine non ha forma, il grande suono non ha voce..., così recita il Tao Te Ching, e attraverso queste semplici parole fonda un viatico d’oriente per il fare e per il fruire dell’arte. Yuan Jai, pittrice taiwanese, studia arte prima a Taiwan, poi in Belgio presso l’Université Catholique de Louvain e l’Institut Royal du Patrimoine Artistique de Bruxelles, e affina in seguito la sua sensibilità in Inghilterra e negli Stati dove si familiarizza con le grandi collezioni di arte moderna e contemporanea.
A Taiwan dirige per molti anni il Museo Nazionale, carica che abbandona dopo trent’anni per dedicarsi in toto al suo lavoro di autrice.
Dall’esperienza occidentale ricava il bisogno, la necessità primaria, di ricucire i fili dispersi che legano l’oggi alla secolare tradizione pittorica della Cina, pur mantenendo i modi di un fare artistico e di un linguaggio ben radicato nella contemporaneità.
Appare curioso come questa importante artista abbia sentito il bisogno di staccarsi da una koinè che viceversa tanto deve alle culture d’oriente.
Cosa sarebbe infatti l’ottocento, in Francia e in Inghilterra, la grande pittura simbolista, l’impressionismo e via discorrendo, senza le grandi “montagne fluttuanti” senza i “mille li” racchiusi nella punta del pennello del grande poeta-pittore Wang Wei, noto per aver stabilito le regole della grande forma del paesaggio in una sola paginetta, ‘il segreto della pittura’?
E non si sta parlando di chinoiserie, ma di un modello estetico di scomposizione dell’immagine, di una frantumazione del percetto, che riflette una cosmologia raffinata, che ha come obiettivo finale una nuova visione, attraverso la liberazione dell’uomo dai suoi vincoli spazio-temporali.
Così nell’arte di Yuan Jai ritroviamo le dimensioni tradizionali dell’acquarello ad inchiostro su seta, l’enfasi della verticalità e dell’orizzontalità, quasi a sottolineare le due direzioni fondamentali della pittura orientale, la verticalità delle montagne e l’orizzontalità dello scorrere dell’acqua, il tempo degli dei e il tempo degli uomini. Il tutto condito da una simultaneità di forme e colori che non si danno più in uno spazio cartesiano, ma rompono altresì la sequenza delle nostre aspettative culturali. Ed è proprio in questo che sta il suo piccolo paradosso, laddove attraverso la rinuncia alle convenzioni d’occidente ne enfatizza le tradizioni e i linguaggi artistici più recenti, perché, forse, la grande forma non conosce divisioni di razza, di cultura e di genere: un uomo, tutti gli uomini.
Maurizio Barberis