«Creatura e creatore»

di Silvio Fuso

 La serie dei Sassi rappresenta, nell’itinerario artistico di Giampaolo Seguso, un preciso punto di arrivo per tutte le opere realizzate nel periodo del «vetro che si fa da sé». Essi danno conto dell’estrema sintesi di una riflessione e di un fare che ha già dato vita ai precedenti gruppi delle Fiumane e dei Barbari; sintesi perché non si può andare oltre senza rischiare la pura gestualità, la pericolosa e possibile assenza di un significato ulteriore. Le Fiumane, che sono venute per prime, sono già testimonianza dell’intenzione –  forte in Giampaolo – di fare in questi termini: «il vetro si è fatto da solo». Nel crearle, gli arnesi di lavorazione sono stati in larga parte sostituiti con strumenti naturali, come egli stesso dichiara: «la forza di gravità, quella centrifuga, il fuoco con le sue fiamme, il getto di aria fredda per cercare di domare la fluidità del vetro». Sul piano dei significati, della volontà d’arte, le Fiumane giustappongono con efficacia il senso stesso del procedere artistico con l’idea della sorgente: l’acqua che, in montagna, appare improvvisamente su un sentiero  e, scendendo a valle, prende delle imprevedibili forme. Così il vetro, nel suo farsi, dà vita ad un’insolita meraviglia, come l’acqua che quando si ghiaccia adatta straordinariamente la materia allo stampo che la natura stessa offre. Il caso dei Barbari è diverso, ma complementare. Non è più la natura ad ispirare l’autorealizzazione del vetro ma la storia stessa della manifattura muranese: gli elementi essenziali di un vaso, di una scultura, forse di una lampada, risultano spogliati, rozzi, ridotti alle sole strutture tettoniche necessarie. Giampaolo considera i Barbari alla stregua di una cura omeopatica nei confronti dell’attuale deriva dell’arte e pensa che solo con l’arrivo di un ciclo anticlassico si possa recuperare e riassumere la forma della tradizione. Le colature, le destrutturazioni dei Barbari, rompono con la piacevolezza del vetro; se vi è ancora dolcezza, se si possa ravvisare ancora un’estrema passione per l’illusione del Bello, ciò è dovuto come per le Fiumane, alla natura stessa del fuoco che ammorbidisce i gesti precisi e decide con la sua ultima, definitiva parola. I Sassi, vertice di questo triangolo, ci interrogano con il loro silenzio sui rapporti profondi che legano materia e forma, tecnica e linguaggio, artista e progetto. Non è facile leggere il lavoro di Seguso all’interno del mondo variegato e disperso dell’arte contemporanea, ma è bensì possibile valutare se queste sue sintesi estreme rientrino nella riflessione e nella pratica di altri, importanti artisti e si collochino quindi, autorevolmente, nella fucina dell’odierna creazione artistica. Tony Cragg è forse la guida più adatta per comprendere il significato, in Giampaolo, di una materia che si fa da sé:[…] la scultura è il tentativo di portare la materia inerte ad esprimere pensieri ed emozioni umani. Se questo vuol dire proiettare intelligenza nella materia, significa anche usare la materia come uno strumento per pensare. La maggior parte delle sculture – le migliori – infatti, non sono solo il risultato del lavoro di un artista che prende un materiale, ad esempio un pezzo di pietra o di creta, lo trae dal suo contesto naturale, e lo costringe ad assumere una forma che esprima un’idea predeterminata; sono, piuttosto, il risultato di un dialogo tra l’artista e la materia. In un appunto dedicato alle Fiumane, così scrive Giampaolo: «No, ripeto ancora: dialogo con il vetro per raggiungere alla fine una dolcezza di linee che solo la materia ha creato, e la mano dell’uomo rimane stupita e umilmente scopre la meraviglia». La mano di Giampaolo è assolutamente identica a quell’organo sensoriale aggiuntivo descritto da Tony Cragg, che deve espandere le capacità espressive dell’artista. Non tutte le condizioni rendono possibili questo dialogo tra l’intelligenza cosciente dell’uomo e quella soggiacente, ma forse infinitamente più potente, delle materie: il tempo non è certo indifferente, deve scandire le movenze del dialogo, ordinarle, renderle feconde. E così lo spazio: la formazione della materia «richiede uno spazio vero (lo studio), un tempo reale ed energia», «i processi plastici ‘messi in scena’ nello studio si fondano su idee, sentimenti, emozioni, atmosfere e gesti – un’unione di metodo e follia. Per la maggior parte del tempo non so se sia io o la scultura, a condurre la partita».

La poetica e la pratica del dialogo intuitivo con la materia lasciano dei problemi aperti con l’idea stessa di progetto – con quella di concetto – come basi necessarie per ogni possibile operare umano. A questo proposito, credo sia inevitabile far riferimento a Pier Paolo Calzolari: la sua statura d’artista lo sottrae ad ogni collocazione e classificazione, comunemente considerato come un esponente dell’Arte Povera, egli supera e rende superflue le singole attribuzioni; certamente, però, il problema dei materiali e del loro senso attraversano il suo fare e il suo stesso vivere. Una sua fondamentale peculiarità consiste nell’«affidare la costruzione dell’opera all’azione diretta degli elementi:  il lavoro di Calzolari è in funzione del mantenimento della Forma in inquietudine e movimento» e « […] quando il lavoro dell’elemento è perfettamente compiuto sull’area predestinata, quando lo spazio dato è definitivamente invaso e pervaso dalla metamorfosi organica, chi è l’artifex, qual è il tema dell’opera?», « […] l’attività di Tramutazione è un sistema aperto: volta a volta, con eguale attribuzione di valore, essa si realizza come sapienza della Trasformazione, come realismo o allegoria». La straordinaria prassi artistica di Calzolari è all’insegna di una biforcazione: realismo materico da una parte, allegoresi concettuale dall’altra. Solo il mantenimento di un difficilissimo equilibrio – che soltanto le sue opere raggiungono – rende possibile la metafora,  l’approccio simbolico che il tempo, con le sue necessarie metamorfosi, garantisce. Nel caso di Giampaolo Seguso però il tempo è tiranno: il simbolo non può percorrere questa strada, in pochi secondi la materia «ghiaccia» la forma, i ripensamenti portano altrove, è obbligatorio quindi bandire realismo e allegoria, centrare subito il bersaglio. C’è una serie di lavori, precedenti sia ai Sassi che alle Fiumane e ai Barbari, che ci può forse meglio introdurre al gesto poetico di Giampaolo: i Mythos.  Questi, realizzati una decina d’anni fa, sono «vasi-scultura» in cui l’oggetto perde la sua funzione caratteristica per attingere, usando le risorse della materia, vero e proprio diapason vibrante, le dimensioni dell’emozione.  In queste opere sono presenti sia il riferimento reale, il vaso, che quello allegorico, donne, dèi, guerrieri, che da esso esplode, fuoriesce; ma l’artista non è stato soddisfatto dei risultati ottenuti, il tragitto ha risentito ancora – troppo – della distanza tra l’uomo e il vetro. Il dialogo non ha reso ancora evidenti i nessi simbolici tra lingua e materia. Scoprire le reali cause di questa empasse non è semplice: il progetto, l’idea, sembrano ineludibili ed insuperabili, il linguaggio dell’artista e del suo materiale sottostanno ad un predominio idealistico che privilegia, da quasi un secolo, l’«ideismo» e la concettualità. È come se la critica, la riflessione estetica, non riuscissero a penetrare la concretezza del gesto, se ne tengono estranee, dando conto più del significato mentale che di quello fisico, concreto, che si presenta alle nostre percezioni. Su questa strada si può arrivare persino al paradosso del «Raffaello senza mani» auspicato dal Lessing; contro questa radicale provocazione passa quasi in secondo piano la considerazione che la cosa – l’opera – è allo stesso tempo forma e materia, e che la prima non può mai comparire se non in presenza della seconda. Un grande studioso di estetica italiana del Novecento – Dino Formaggio – ha contribuito a risolvere questo complesso problema che, in alcuni casi, contrapponeva drammaticamente l’artista alla materia in un rigido dualismo risolto, in altri tempi, con il ricorso alle ragioni oscure e sentimentali dell’ispirazione. Attraverso un’analisi profonda dei maggiori pensatori che si sono dedicati all’oggetto estetico, Formaggio cerca il medium, scientificamente definito, tra materiali e interiorità dell’artista: è la tecnica il nuovo protagonista dell’incontro, del dialogo, è lei che permette di collegare «l’unità attuale, che si verifica nel momento particolare come istante, e l’unità metatemporale, che si consegue nell’opera». Attraverso la tecnica artistica, quindi, «il materiale entra come parte determinante, naturale e sensibile, nell’organizzazione costruttiva dell’opera». «L’istante – poi – è anche la liquefazione del materiale in tecnica […] e il consolidamento dell’infinito probabilismo della tecnica interna in un’operazione che si fa gesto od atto, che si fa opera, durata, scavalcando l’istante stesso». Non dobbiamo però credere ad un’autonomia del gesto tecnico, altrimenti ricadremmo nell’orgoglio progettuale, nell’idea di un metalinguaggio che giustifica e assolve ogni agire umano: «la tecnica artistica sorge nell’uomo come sensibilità e natura. Diventa, con l’uso, volontà e coscienza; crescendo su se stessa diventa intelligenza, umanità». Non possiamo seguire ulteriormente le riflessioni di Dino Formaggio, ma si può affermare senza dubbio che quando egli lega tecnica e sensibilità, rischio e fede, siamo esattamente nel campo di Seguso: il richiamo alla concretezza dell’opera –  contrapposto con forza alla negatività di ogni dadaismo concettuale – sarebbe caro a Giampaolo, che non separa mai nel suo lavoro le ragioni umane da quelle materiali o produttive, ma le unifica in quel meraviglioso istante di liquefazione, che per lui è segno di testimonianza e appartenenza.Questo procedere, azzardato e sicuro al tempo stesso, si muove all’interno del rapporto tra materia e forma, ma soltanto per trascenderlo e giungere vittoriosamente ai domini del simbolo, a quell’«arcobaleno» che collega le terre del Creatore con quelle del Creato. Sarebbe oltremodo facile avvicinare Seguso ai grandi protagonisti del Simbolismo storico: certamente, anche per lui, l’artista non imita la natura, ma ne continua l’opera, ne diviene gemma e crisalide, creatore e non Demiurgo. Questo collegamento però, al di là di uno scontato anacronismo, lascerebbe comunque fuori qualcosa – un approccio, una tecnica – una povertà creaturale che è al contempo umile e gloriosa.

«Quando apri la tempera, non c’è momento pari a quello: tu rivedi qualcosa che avevi già visto ma che è completamente diverso da come lo ricordavi. Non c’è sicurezza di successo, però tutte le volte - e a me succede sempre - il pezzo da freddo è molto più bello che da caldo. All’inizio lo guardo e penso “Che bello” ma quando si raffredda è una meraviglia! Cosa ho fatto io? Solo quello che c’era da fare in natura: ho la legge di Dio che vince (bisogna che faccia come vuole Lui, non posso fare diversamente) però riesco a fare qualcosa di diverso da quello che esiste: sono creatura e creatore. Questo è il nostro luogo sacro». Il luogo sacro di Giampaolo è abitato da un nuovo simbolo «che interrompe l’infinito, angosciante rinvio della realtà, e cala l’infinito nella forma finita e compiuta» e si presenta sotto le specie di un oggetto naturale, semplice, persino troppo comune. Il «sasso» contiene molto di più di quanto appaia ad una considerazione superficiale, disattenta; è testimone delle intelligenze, dei logoi immersi nei corpi della natura: la sapienza della fattura, che non è più abilità ma soltanto trasparente accoglienza, illumina le ragioni della creatura offrendole nel simbolo che corrisponde perfettamente alla Natura, ma è anche altro, corpo-idea per così dire, tessera visibile della presenza invisibile e frutto della partecipazione integrale dell’uomo.