Senza volto
di Luca Violo
La società dell’immagine ha perso lo specchio dove riflettersi: il volto. L’oggetto bramato da ogni selfie, ritratto narcisistico e immediato di una memoria che non sedimenta più il ricordo, si confronta con il suo opposto, ovvero sottrarre il volto dallo sguardo esterno. Improvvisamente, la cultura occidentale si è resa conto di quanto possano essere rigide le regole religiose, che impongono da millenni nelle culture mussulmane più ortodosse la copertura parziale o totale del volto femminile. Assistiamo in questi mesi di residenza coatta all’occultamento del viso intero, di quel ritratto che rende unico e riconoscibile ogni persona.
La casa stessa – riflesso di un gusto estetico che diviene specchio intimo di chi la abita, con una memoria di oggetti che nel tempo si sedimentano come epifanie emotive rassicuranti – è lo spazio esclusivo del disvelamento del volto. Il ritratto che da sempre ha rappresentato l’eternizzazione dalla dimensione terrena a quella sublimata, improvvisamente diviene privato e domestico, lontano dal confronto della vita sociale, che si è dissolta nella tragedia della pandemia batterica, impalpabile e simbolicamente senza volto.
La perdita temporanea del libero arbitrio ci ha posti molto vicini a una lucida follia che rivela senza veli le onde dell’anima, come notava Emil Cioran nei “Sillogismi dell’amarezza”: “Noi ci trinceriamo dietro il nostro volto; il pazzo con il suo si tradisce. Egli si offre, si denuncia agli altri. Persa la maschera, rende pubblica la sua angoscia, la impone al primo venuto, propaga i suoi enigmi. Tanta indiscrezione irrita. È normale che lo si leghi e lo si isoli”.
Siamo diventati più fragili e indiscreti senza volto, perché abbiamo capito la sottile ma fondamentale differenza tra guardare superficialmente i tratti fisiognomici e vedere in profondità nel volto di ogni essere umano i tormenti e le gioie della vita nella sua incoerente e naturale casualità.