Per un’equanime compassione: Walker Evans e i ritratti

di Silvio Fuso

 La mostra che Palazzo Fortuny dedicò nel 1990 a Walker Evans, curata da me assieme a Paolo Costantini e Sandro Mescola, fa data del mio primo incontro ufficiale con il grande fotografo statunitense. Ma la mia passione risale a undici anni prima, nata nel mezzo di quella grande ubriacatura di immagini e di parole che fu ‘Venezia79 La Fotografia’. Scoprii, di prima mano, i lavori della FSA Farm Security Administration e tra i grandi protagonisti della straordinaria epopea fotografica spiccava senza dubbio Walker Evans.
Rappresentava, almeno per me, la perla di quel gruppo coeso di artisti che fondevano i loro linguaggi in vista di un comune traguardo sociale ed espressivo: Dorothea Lange, Ben Shan, come trascurarli? Eppure, Walker Evans faceva la differenza, impercettibile forse, ma inequivocabile.
Le sue immagini, già a quel tempo, danno conto di un linguaggio e di una poetica fotografica nuova. Che termine abusato ‘novità’, ma assolutamente preciso in questo caso perché Evans da subito fa sua la rivoluzione iniziata in Francia da Eugène Atget. Il campo dell'immagine si presenta equanime: sentimento, retorica, psicologia assenti, con la differenza che le assenze di Atget divengono le presenze umane di Walker Evans.
Testimonianza equivalente di oggettività ed equanime compassione. Mi sembra quasi una possibile definizione della fotografia, di una certa fotografia almeno, che si fa strumento di nobile conoscenza estetica.
A questo proposito si dovrebbero considerare con più attenzione le relazioni, i percorsi, la formazione dei grandi fotografi americani degli anni tra le due guerre: scopriremo forse un profondo legame con il pensiero e la cultura europei (valga, ad esempio, la conoscenza dei testi di Walter Benjamin da parte di Evans, documentata dalla rivista Hound& Horn) e un inedito intreccio tra arte continentale e le narrazioni del cinema e della fotografia negli Stati Uniti.
Sarebbe certo affascinante ‘decostruire’ la leggenda di un'avanguardistica innocenza espressiva degli artisti americani; basti però far riferimento alla cultura dei ‘precisionisti’  o alla esemplare vicenda umana e artistica di Mark Tobey.
Walter Benjamin, in un importante saggio, aveva già nel 1931 affermato la possibilità di cogliere, o, a meglio dire, catturare in un ritratto fotografico lo stato d'essere di un ambiente, di un paesaggio. Retaggio di poetica simbolista? Forse, ma più verosimilmente geniale riconoscimento delle possibilità ‘magiche’ della fotografia. Per quel che ci interessa, stupefacente e perfetta descrizione del lavoro di Evans: non che il fotografo aspettasse certo una validazione esterna della propria opera. L'artista, esattamente come un altro grande, Edward Weston, anteponeva il suo fare a ogni possibile considerazione teorica. Il solco tuttavia è tracciato, la temperie espressiva ardua e complessa, ma gravida di traguardi.
Sono impaziente di tentare un'analisi dei due lavori che considero i più significativi di Evans: Many Are Called e Labour Anonymous. Vorrei tuttavia che ci soffermassimo un momento su quelle sei settimane che Walker trascorre assieme allo scrittore James Agee in Alabama, inviati per descrivere, dare testimonianza, della vita degli ultimi, dei derelitti della grande depressione, vita, per quanto possibile, da loro stessi condivisa.

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Sodalizio  e grande esperimento dove confluiscono esperienze di cinema, fotografia e letteratura in una felice anticipazione della moderna antropologia partecipativa. Senza politiche correttezze però, sostituite  a quel tempo da passione artistica e sincera indignazione. Questo lavoro così crudo, persino esagerato nella sua identificazione con il soggetto trattato, imbarazzò  naturalmente i committenti, ma segnò in profondità il fotografo indirizzandolo alle future ricerche.

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Many are called. New York  al posto dell’Alabama: una più serrata oggettività tecnica, la macchina nascosta e l'inquadratura spontanea, sono questi i parametri  del lavoro sulla metropolitana: persone ritratte nel loro ‘nudo riposo’, rappresentanti di tutti i generi di tutte le razze e le categorie, eppure, nelle parole di James Agee, uniche come fiocchi di neve.

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Nuove soluzioni per il vecchio problema degli universali. Walker Evans oltrepassa a questo punto i limiti del suo credo naturalistico, la tentazione flaubertiana per intenderci, e si accosta a una dimensione dell'immagine dove la ripresa fotografica, impassibile, coglie stati d'animo personali che plasmano gli ambienti da loro abitati: paesaggi di uomini come pietre, alberi, cieli.
Non sembri saccente o, peggio, ironico il riferimento alle Stimmungen, gli stati d'animo in Heidegger. Ricordiamo che sono gli anni della fenomenologia e dell'esistenzialismo. Consideriamoli invece come grimaldelli filosofici che consentono di oltrepassare l'individualità senza perderne la ricchezza.

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E questo fa esattamente Evans: rincorre e afferra la bellezza dove altri vedono squallore e uniforme grigiore, coglie nel numero la forma irripetibile dell'archetipo umano.

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Il lavoro sulla metropolitana non viene pubblicato, dovranno prima passare vent'anni. Prudenza, forse insicurezza frenano lo stesso autore o, più semplicemente, manca la giusta comprensione dell'opera.

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Su Fortune esce quindi prima ‘Labour Anonymous’ realizzato a Detroit nel 1946 che accomuna, nel titolo e nel significato, la fatica del fotografo e quella dei suoi personaggi, simboliche controfigure dell'artista. Ormai l'immagine è onnicomprensiva, e Walker Evans non usa più la macchina nascosta. Non serve. Lo straniamento, lo spostamento mente-spazio tuffa tutti i protagonisti nello stesso rito, nello stesso cupo teatro immaginale.
Guardate i volti, i pensieri...
Più che arte. 

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