Il rovescio della vita. Appunti per una pragmatica dello spirito magico.
di Serafino Murri
“…Quando gli avrete fatto un corpo senz’organi, allora l’avrete liberato da tutti i suoi automatismi e reso alla sua vera libertà. Allora, voi gli rinsegnerete a danzare alla rovescia, come nel delirio dei balli popolari, e questo rovescio sarà il suo vero posto…” (Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de Dieu)
Della porosità di certi confini: il corpo, l’oggetto e il suo daimon.
È paradossale – ma non troppo, che dopo migliaia di anni di riflessioni e indagini condotte dall’Homo Sapiens su se stesso, non sia emersa a tutt’oggi un’idea condivisa e definitiva, in campo scientifico come filosofico, del termine “coscienza”, lo sguardo-voce che ci abita e ci guida nell’esperienza. Comunque la si declini, però, la coscienza implica una scissione strutturale, una forma dialogica ininterrotta tra un processo mentale complesso e multiforme – il “pensiero”, e un’entità corporea – l’individuo, che interagisce con stimoli sensoriali indotti dagli elementi materiali di un ambiente (dotati di esistenza concreta e “percepibilità”), con stimoli mentali autogeni (le impronte percettive dell’esperienza pregressa elaborate dalla memoria in immagini), mentre agisce nell’ambiente monitorando i propri impulsi sensomotori autonomi.
I movimenti di compenetrazione e separazione con l’ambiente costituiscono la dialettica fondamentale del vivente, la cornice della sua esperienza reale. Pur non avendo definizioni univoche neanche per quanto riguarda il “pensiero”, l’immateriale linfa che alimenta il lavoro mentale cosciente, si può dire che esso venga comunemente identificato con contenuti di linguaggio articolato come fosse una sua emanazione, conseguenza della sua introiezione individuale, e non invece un dispositivo che catalizza aggregati di immagini mentali, percezioni ed emozioni, dispiegandoli narrativamente in voci. Quel che è certo è che questo processo, che determina e rispecchia la vita come fenomeno “interiore” intrinseco al vivente, è incarnato in una corporeità che agisce.
L’idea del suo portatore, l’“individuo” (che a rigore significa “parte ultima e indivisibile di un tutto”), emerge infatti dalla delimitazione di una consistenza biologica pertinente, il corpo. Ma il corpo come insieme organico e materiale in azione, nella sua continua percezione dell’ambiente, è permeato da scambi di energia: come accade al resto della materia, che a livello subatomico è energia condensata transitoriamente in corpi. Per di più, lo stesso pensiero non è articolato a partire da una logica omogenea, ma è – ennesima dualità – , per utilizzare un termine introdotto da Ignacio Matte Blanco, bilogico: in esso coesistono una logica razionale (il logos aristotelico, astratto e algoritmico, che distingue e dirime, alla base del movimento cosciente di “scissione” dall’ambiente), e una logica emozionale (simmetrica, fusionale), interrelata tramite i sensi con l’ambiente e l’altro da sé (alla base del movimento, in parte inconscio, di “compenetrazione” con l’ambiente). Il metadialogo che si instaura tra il pensiero incarnato nel corpo che agisce e percepisce, e la coscienza immateriale che lo rielabora in stato vigile, ci riporta alla suggestiva ipotesi di Julian Jaynes, collocata in tempi neanche troppo remoti (la Grecia di Omero, meno di 2800 anni fa), quando la mente umana – sostiene lo psicologo –, era vissuta come “bicamerale”: un’epoca in cui la comunicazione tra i due emisferi del cervello non sarebbe stata ancora unificata dalla coscienza, e le “voci” immateriali del pensiero venivano letteralmente attribuite dai loro portatori a un daimon, una divinità, spirito non vincolato dall’appartenenza al corpo, che “parlava” nella mente degli individui.
Secondo quest’ipotesi l’emisfero sinistro, quello linguistico e logico-matematico che astrae e separa dal mondo come esperienza dei sensi, recepiva dal destro, addetto alla poiesis e specializzato nell’immaginazione iconico-emozionale, delle allucinazioni acustico-visive che erano vissute non come pensieri personali e volontari, ma come vere e proprie possessioni divine. Complice la “scrittura”, techné nata per “oggettivare” l’espressione verbale articolandola in segni, si sarebbe in seguito effettuato il passaggio verso una separazione “narrativa” dell’individuo dal mondo, cosa che ha finito per mettere tra parentesi (relegandola al sogno) la primitiva fusione emozionale del corpo, simbolica e “iconica”, con l’ambiente percepito come “altro da sé” e interiorizzato. Il crollo della mente bicamerale corrisponde per Jaynes all’atto fondativo della coscienza: l’univocizzazione di un pensiero introflesso e sottomesso al dominio logico dell’Io. Solo nel passaggio al Ventesimo secolo, Sigmund Freud rimetterà in questione l’imposizione di questa monolitica coerenza individuale, recuperando “l’altro da sé” interiore come contenuto dell’Inconscio, questo emissario dell’Io che si esprime soprattutto nel sogno: il poliziotto di una coscienza che dissimula e rimuove dalla mente tutto quanto può perturbarla sul piano emozionale mettendo a repentaglio l’integrità individuale, pensieri eretici che attentano alla monistica religione dell’Ego. Il crollo (storico) della mente bicamerale, evoca così un ancestrale atto di forza, tramite il quale, strappandosi alla condizione edenica di una coscienza vissuta come “cum-scire”, con-sapevole sentimento di unità energetica vitale con il Tutto (quella che Schopenhauer definisce wille zum leben, “volontà di vita”), l’uomo, elaborando l’equazione fondativa del logos razionale Io=Dio, si è sostituito al mistero di ciò che Platone ancora definiva enthousiasmos (portare un Dio dentro). Una condizione delirante, visionaria, un invasamento che spingeva a trascendere ragioni e vincoli della vita contingente, che era ispirata da quattro divinità: Afrodite e Eros, che inducevano l’esaltazione amorosa; Dioniso, dio dell’ebbrezza attraverso cui il corpo, corrompendosi, mirava all’estasi panica; Apollo, dio dell’intelletto, fautore del delirio profetico (il linguaggio divino dell’enigma), ma anche guida e protettore delle Muse, le nove sorelle figlie di Zeus e Mnemosine (della massima divinità olimpica e della dea del Ricordo), artefici del delirio poetico: quest’ultimo, di fatto, il solo delirio umano che permane nel tempo, che testualizza l’esperienza materializzandola in oggetti esperibili.
I deliri platonici sono dunque forme di affezione, eroici furori dell’Io con cui Giordano Bruno descriveva l’aspirare in alto dell’anima che sente di portare dentro una “vita delle vite”, una spinta al di là del proprio destino contingente e individuale. Ma allontanandosi razionalmente dal sentimento di condivisione della scintilla del “Deus sive Natura” spinoziano, l’uomo ha finito fatalmente per identificare la propria autonomia funzionale (il vivere il proprio corpo secondo autoregolazioni personali, leggendo il mondo con i propri schemi esperienziali, in modo autopoietico) con un’effettiva indipendenza (esistere nel proprio corpo, separati dal mondo). Quest’ultimo, ossimorico “delirio razionale”, base dell’irreggimentazione dell’Ego in un logos che organizza e finalizza la coscienza (da cui deriva anche l’aberrante desiderio di conquista come affermazione sull’altro da sé), sarebbe nato insomma dal bisogno di tacitare la molteplicità di voci e visioni che attraverso i sensi perturbano la coscienza individuale, operando un’entelechia: ponendo cioè l’unità coerente del sé come cornice e fine supremo dell’esistenza. Si profila così l’individuo umano concepito come monade che, sottolineava Leibniz, è prodigiosamente dotato della capacità di rispecchiare l’universo che esperisce, rappresentandoselo nel théatron della mente. Monade che, aggiungeva il filosofo-matematico, non ha né porte né finestre: non può far entrare materialmente nessun altro nella sua sfera immaginifica.
Ciononostante, l’individuo umano si caratterizza per quella che Emilio Garroni definisce capacità metaoperativa: saper agire non solo in vista di uno scopo immediato, legato alle esigenze contestuali del qui-ora, ma creando strumenti o oggetti in maniera “progettuale”, in vista di un’azione-interazione futura: questa modalità è la genesi tanto della tecnologia come estensione operativa del corpo umano, quanto dell’arte come espressione di idee ed emozioni attraverso oggetti raffigurativi, che della stessa scrittura linguistico-verbale. Operando tecnicamente sulla materia e imponendole una forma, c’è dunque la possibilità di esportare fuori di sé il senso delle proprie immagini interiori e delle intenzioni che le animano, investendone oggetti materiali. Inoltre, è Leibniz stesso a suggerire che la “monade egemonica” di tutte le monadi-cellule che costituiscono il consistere corporeo, il complesso aggregato immateriale tradizionalmente definito anima (ψυχή, psyché), a livello animale deve poter percepire (e questo è il dominio dei sensi), e a un livello superiore condividere con il divino la capacità di appercepire, accorgersi cioè di percepire, elaborando una distanza, uno sdoppiamento tra sé come soggetto e sé come oggetto comunicante (non solo corporeo) del proprio stesso pensiero. Così, per quanto l’uomo abbia tentato di padroneggiare la pluralità di voci della coscienza ponendo l’Io a difesa dell’inespugnabile fortezza corporea che lo divide dal mondo, risulta evidente che i confini del corpo (per rubare una suggestiva immagine al compianto David Foster Wallace), non sono affatto fissi e impenetrabili, ma, per così dire, porosi.
Il discorso ininterrotto della coscienza lascia aperti spazi permeabili dai sensi, attraverso cui l’altro da sé si insinua in modo più o meno intenzionale, facendo scaturire immagini interiori inenarrabili concettualmente – quelle che Theodor W. Adorno definiva “immagini afigurative”– , stati emozionali che hanno il potere di riattivare l’antico sentimento di fusione con il mondo esterno. Nel momento in cui effettua il passaggio cruciale dall’essere all’esistenza, nel convulso dasein dove l’individuo esercita una presenza a se stesso e si determina nella contingenza di un rapporto di scambio con il mondo conservandosi come individualità separata in perenne mutamento, sono proprio gli oggetti (non solo artistici) con cui si veicola la propria attività immaginativa investendo la materia di senso, i soli a poterlo ricondurre nel sentimento estatico dell’originaria unità perduta, superando il suo isolamento autopoietico.
L’esistenza (auto)cosciente ha luogo infatti in un perenne confronto con un fenomeno opaco alla coscienza, quanto costantemente riaffiorante: un’eccedenza dell’individuo rispetto a sé stesso, segno vitale di un inquieto consistere meta-stabile (stabile nell’instabilità permanente, permeata dalle impressioni dei sensi), e condizionato dalla spinta delle immagini provenienti dall’ “altro da sé”, dai riflessi interiorizzati del mondo. Una condizione che rende conto di una questione nodale, che il filosofo Gilbert Simondon sintetizza così:
“…l’individuo non è che se stesso, ma esiste come superiore a se stesso, perché porta con sé una realtà più completa, che l’individuazione non ha esaurito, una realtà ancora nuova e potenziale, animata da potenziali…”
La “realtà potenziale” che alimenta l’eccedenza dell’individuo rispetto a se stesso, è ciò che Simondon definisce il preindividuale: luogo genetico, archetipo del vivente, costituito da una carica di “natura” di cui partecipa e che lo condiziona, della quale la società con i suoi modelli, usi e costumi, seduzioni e tentazioni, non è che l’epifania contingente, un’epistème storica (nel senso foucaultiano di “orizzonte di pensiero” collettivo), entro la quale il soggetto si “individua” sfasandosi in continuazione rispetto a ciò che è, benché resti incapacitato a contemplare la propria finitezza, la disgregazione come processo di compimento della vita, complementare all’evolversi nel tempo. La soggettività, gabbia misteriosamente introflessa ma porosa e permeabile dal sé-altro e dall’altro-da-sé, molteplicità sensibile che si organizza per tamponare il conflitto permanente tra individuo come declinazione del preindividuale e individuo come risultato dell’atto dividuo da cui ha origine l’Ego, resta comunque (più inconsciamente che consciamente) parte di un Tutto a cui si relaziona, e con cui si misura incessantemente, qualcosa che lo precede e gli succederà. Come il personaggio di Monsieur Teste di Paul Valery, l’Ego si individua nell’atto di vedere sé stesso, e nel pensiero come coscienza del vedere se stesso vedersi, per scoprire che quest’indagine conduce inevitabilmente al confronto col mistero originario, con l’insondabile verità dell’essere oltre i limiti corporei del sé. La dimensione di un’immanenza insondabile, a cui si lega la possibilità di vivere fuori del tempo soggettivato, che contrasta con l’idea rimossa della morte, è il motore oscuro della coscienza, il residuo di una sensazione ancestrale di eternità dell’essere, di cui il sé partecipa dalla prigione mortale dell’esserci, vincolato ai limiti dell’esistenza.
È qui che entra in gioco la “porosità” dell’anima, la sola scialuppa di salvataggio dal naufragio razionale dell’esistere, che l’individuo “sfasa” col riemergere dell’insondabile contro le illusioni monadiche dell’Io: l’esperienza dell’altro da sé negli oggetti, che risveglia il sentimento estatico di appartenenza al preindividuale, dà senso al nostro esistere, ed è lo sfondo attivo dell’essere. L’oggetto in quanto artefatto costituisce così un atto magico, qualcosa che opera una trasformazione dell’ordinario (la materia inerte) in straordinario (la percezione di uno spirito inteso come portatore di senso immanente). L’esperienza dell’oggetto ha il potere di “invasare” l’individuo, di mobilitare l’energia del desiderio, allo stesso modo che l’oggetto transizionale di Donald W. Winnicott porta a individuare la figura materna come altra e non altra da sé: inducendolo ad esperire qualcosa che non fa più parte del corpo, ma non è neppure del tutto riconosciuto come una realtà “esterna”. Leibniz, non a caso, definiva l’esperienza del “bello” una percezione chiara e confusa, usando il termine “confuso” non con una valenza negativa, ma (com’era già per Baumgarten) nel senso di “fuso assieme”: una percezione in cui le caratteristiche dell’oggetto sono organicamente fuse l’un l’altra come nell’organicità del vivente, che si estende ai sensi del soggetto che percepisce indistintamente includendolo, fino al suo con-prendersi con l’oggetto nell’atto di sentire. Nell’oggetto (non solo) artistico, il visibile diventa manifestazione dell’invisibile, “oggettualizzazione dell’inoggettuale”, per usare di nuovo la terminologia adorniana. Un’esperienza magica che materializza un’energia vitale relazionale, dove l’aspetto manipolatorio e senso-motorio, che ha imposto un’intenzione alla materia, emerge come qualità riconoscibile e viva dell’oggetto, dando luogo a visioni che trascendono l’oggetto e la sua consistenza. Emilio Garroni evidenzia come la percezione umana degli oggetti cominci già con un movimento interpretativo, che coglie e organizza quanto nella concettualizzazione resta ancora separato, in forma di aggregato: un insieme pre-linguistico e pre-concettuale, che può essere costituito da
“ (…) oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza, ma solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile intellettualmente di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, volto al padroneggiamento di eventi e cose amate, preoccupanti, esaltanti: l’unione di due termini diversi perfino opposti, in una proposizione unitaria non più risalibile. ..”
L’esperienza di ri-conoscimento dell’oggetto nel cortocircuito affettivo che “unifica disparati”, rimanda a qualcosa come una facoltà alchemica innata, movimento fusionale dell’individuo “emozionale e fantasticante” con l’ “altro da sé”, che a nostro avviso qualunque oggetto è in grado di attivare in quanto “tempo scolpito” (zapečatlënnoe vremja, icastica definizione di Andrej Tarkovskij relativa all’oggetto-film, ma valida per ogni oggetto materiale che sintetizzi ed esprima un’in-tenzione, una tensione interna dell’operare umano e perfino “naturale”). Il pensiero linguistico che concettualizza e viviseziona in formule verbali le espressioni chiare e con-fuse della “immaginazione per aggregati”, nulla può per evitare che sussistano invasanti infrazioni dei confini dell’io-corpo, che la porosità dell’anima tramite l’esperienza dell’oggetto fa trapelare, muovendo l’individuo verso un sentimento partecipe della dimensione preindividuale. Se il “crollo della mente bicamerale” derivava dallo sforzo di seppellire (relegandolo nell’inconscio) il molteplice individuale, feticizzando l’orizzonte unico di senso di una coscienza concettualmente determinante, il pensiero nella sua pluralità “appercettiva” testimonia la permanenza del molteplice come epifania dell’insondabile al di là dei confini della coscienza, come residuo irrisolto dell’antico cum-scire, dello stato di con-fusione edenica del vitale e del mortale. Inequivocabilmente, questa dimensione dell’esperire ci rimanda all’idea deleuziana di un “corpo senza organi”, tangente all’intuizione sensibile del preindividuale, come ambiente interiore dinamico e informale, campo di forze in cui si contrappongono tensioni differenti, differenze di potenziale tra essere ed esistere, potenziali preindividuali che determinano l’insorgere del desiderio. “Senza organi” equivale a “senza organizzazione”: cioè, quel che prova un corpo assolutamente fluttuante, liberato estaticamente dalla sua entelechia, non più funzionale al proprio scopo, e portatore di un diverso stato di coscienza: il corpo disorganico che emerge dall’esperienza dell’oggetto. È in questo movimento di attivazione del desiderio di superarsi, che l’oggetto si evidenza come “spirito magico”, portatore di un daimon relazionale della materia. L’oggetto come ars in senso ampio, scintilla e innesco di un rovescio del reale più autentico e vero delle illusioni di controllo dispensate dai concetti del logos razionale. Per utilizzare l’immagine di Artaud, l’oggetto si pone come con-presenza e con-prensione che inducono nel soggetto una “danza alla rovescia”, originando nel pensiero un quantum intelletto-emozione (come lo definisce Matte Blanco), dimensione a-temporale in cui realtà interna ed esterna, sé e “altro da sé” coincidono o si scambiano reciprocamente, dove finito e infinito si incontrano sul confine tra coscienza e inconscio. Il corpo come processo e non come concetto, che carpisca le “onde di intensità” del mondo, moto spontaneo che permette di scrollarsi di dosso gli automatismi logici dell’Ego, fino a recuperare un ancestrale libertà di sentire oltre il sé, che non è semplicemente piacere fisico, ma gioia eversiva e vitale di un corpo in divenire.
Al di là del desiderio di durare. La dialettica aggregazione-disgregazione e la Morte dell’Autore.
La “forma effimera” dell’oggetto, dunque, sembra possedere il potere di mobilitare la tensione verso la totalità dell’essere oltre i limiti della coscienza individuale, cristallizzando come nel rito magico il tempo del divenire nel non-tempo rovesciato dell’immanenza. Claude Lévi-Strauss affermava a tal proposito che “le operazioni magiche si fondano sulla restaurazione di un’unità, non perduta (perché niente va mai perduto) ma incosciente”, mentre Sigmund Freud in Totem e Tabù sottolineava che “il principio che regge la magia (…) è l’onnipotenza delle idee”. L’oggetto come artefatto sprigiona idee materiali, energie condensate del gesto che opera sulla materia, idee “contagiose” da intendersi nel senso etimologico (da ἰδεῖν, vedere): visioni, aggregati pre-linguistici, pre-logici, pre-cognizioni, riflessi di uno spirito all’opera riproducibili per osmosi in un altro sé. Sommergere la realtà esistenziale attingendo all’eccedenza del sé, mettere in grado di ri-conoscere il preindividuale che si cela nelle falde del rimosso, è possibile grazie ad un artifex la cui invisibile presenza si dilata oltre il suo tempo metaoperativo, attraverso oggetti che sono un conio generativo di esperienze. Può trattarsi del Dio-Natura come del singolo artista: ma i suoi confini non sono mai “individuali”. Nel suo L’Art Magique, il profeta del pensiero surrealista André Breton, ex dadaista convertito al freudismo, afferma che la magia “è una di quelle idee confuse di cui crediamo di esserci sbarazzati e che, di conseguenza, facciamo fatica a concepire. (…) È astratta, eppure piena di concretezza”. La combinazione di opposti, astrazione concreta o concretezza astratta che sia, è la capacità alchemica che l’arte come organizzazione della materia eredita dalle pratiche magiche di un momento pre-istorico in cui esprimersi significava dare seguito e forma alle voci del daimon: la base rituale dell’atto di religazione, legarsi a qualcosa che è fuori di sé ma non del tutto. Del resto, lo slogan del primo manifesto surrealista “l’esistenza è altrove”, invocava un gesto artistico dal potere divinatorio sull’individuo, in grado di rivelarne i segreti più intimi (quelli sussurrati dal daimon nella mente bicamerale), attinti da una nudità originaria, l’insondabilità dell’essere. Così in un tempo infinitamente remoto, molte migliaia di anni prima della mirabile mimesi pittorica dei Sapiens nelle grotte di Altamira e di Lascaux, degli stencil delle mani di ignoti artisti come firma corporea sotto gli affreschi rupestri, certo incommensurabilmente prima di qualunque tentazione “narrativa” del linguaggio concettualmente articolato del logos, la “Venere di Hohle-Fels” ritrovata nel 2008, enigmatica e conturbante scultura di prospera figura femminea senza testa scolpita nell’avorio di un mammuth, risalente a un periodo collocato tra la cultura paleolitica dell’Althmül e quella Aurignaziana dell’uomo di Neanderthal (tra 47.000 e 35.000 anni fa), era portatrice del potere dell’oggetto di condensare nella materia lo spirito vitale: decine di migliaia di anni prima dell’umana conquista della coscienza. Un potere di “scrittura” inteso come fissazione dell’idea in un manufatto materiale, che Platone nel Fedro definiva “disumano”, in quanto ricrea fuori della mente ciò che può esistere solo al suo interno. Ma quali sono le caratteristiche e i campi di forza in cui prende forma e consistenza la testualità come materializzazione di un’immagine mentale, trascrizione esperibile di un’idea? Cosa riflette lo sforzo (magico) di imprimere forma alla materia, e chi ne è davvero il responsabile?
“Non appena comincia a scrivere, l’autore entra nella propria morte”: così, oltre mezzo secolo fa, Roland Barthes introduceva l’idea di “morte dell’autore” per definire l’aspetto fondante della “personalità espressiva”: quell’identità immateriale in grado di catalizzare il preindividuale, la voce universale che emerge dall’opera e si oggettiva. La scrittura intesa dunque come forma tecnica di possessione, che decreta l’irrilevanza estetica dell’individuo biologico invasato dal daimon dell’ispirazione, e inficia la feticizzata idea della creatività individuale, negando persino la “paternità” dell’opera. Perché se è vero che l’opera esiste solo in una dimensione relazionale, nel kantiano “riconoscimento” di “oggetto di un piacere necessario” da parte di chi ne fruisce (ma noi diremmo di più, con Deleuze, di un “desiderio necessario”), nella sua visione Barthes va oltre, affermando che qualunque testo (che significa intessuto, assemblato, intrecciato), è la sintesi di una molteplicità:
“…Un testo è fatto di scritture molteplici, provenienti da culture diverse e che intrattengono reciprocamente rapporti di dialogo, parodia o contestazione: esiste però un luogo in cui tale molteplicità si riunisce, e tale luogo non è l’autore, come sinora è stato affermato, ma il lettore...”
Al centro del lavoro testuale per Barthes sta il lavoro della soggettività come “aggregatore” di una molteplicità “multidimensionale”, che è citazione e riscrittura di qualcos’altro, a partire dal bagaglio mnemonico-culturale a cui l’autore attinge (in maniera conscia o inconscia), arrivando a catalizzare le proprie idee in una forma che ne riecheggia infinite altre:
“[…] un testo […] è uno spazio a più dimensioni, in cui si congiungono e si oppongono una varietà di scritture, nessuna delle quali originale. Il testo è un tessuto di citazioni, provenienti dai più diversi settori della cultura. […] Lo scrittore può soltanto imitare un gesto sempre anteriore, mai originale; il suo solo potere consiste nel mescolare le scritture, nel contrapporle l’una all’altra in modo da non appoggiarsi mai a una in particolare…”
Questa fenomenologia dell’opera testuale, che vale non solo per la scrittura verbale, scarta dalla visione demiurgica del “genio” e mette al centro del processo la (magica) concezione di un oggetto che evoca nella propria forma i segni di una personalità composita e preindividuale, che assorbe e riformula reminiscenze spingendole oltre le motivazioni personali in una “visione”, ed investe l’oggetto di un potere vitale autonomo dal suo autore. È lo stesso potere che Horst Bredekamp ha definito dell’ “atto iconico” (bildakt), energheia che sintetizza l’esperienza vitale nella dimensione extratemporale dell’immagine, innescando l’esperienza percettivo-interpretativa, che è affettiva e relazionale. Bredekamp afferma che le immagini non sono manufatti inerti – dotati, nel caso delle opere d’arte, solo di alta concentrazione estetica e puri valori formali − ma che agiscono concretamente su di noi. L’oggetto è un dispositivo che ha il potere magico di istituire una dimensione mediale autonoma, che ci “parla” in quanto, come il linguaggio, trasmette un senso, ma a differenza del linguaggio appartiene al mondo organico, è materia, in senso letterale: il particolare tipo di materia che esprime e influenza il nostro mondo psichico e simbolico. Le immagini intese come oggetti raffigurativi, forme compiute non solo generate ma generative (quale che sia la materia di cui si compongono, o la loro forma di “scrittura” testuale), sono un’interazione dinamica fra chi le materializza traducendo in atto un portato emozionale e soggettivo, e chi recepisce quell’atto e lo fa proprio. Morte dell’autore e autore della “morte del sé” nell’opera, rappresentano l’unica possibile simulazione-sublimazione dell’esperienza della disgregazione personale, rendono tangibile il sostrato rimosso dal costituirsi dell’individuo corporeo come soggetto, che per contro è sottoposto (come tutto ciò che è materia) all’impietosa legge di conservazione della massa di Lavoiser, l’incessante trasformazione per cui “nulla si crea e nulla si distrugge”, ma che non può contemplare l’insondabile della propria fine. La “creatività” come individuazione del “genio” ed estro della fantasia individuale, si svela così come un mito razionale, l’ennesimo delirio di onnipotenza di un Ego che feticizza e introietta la propria capacità tecnica. La possibilità di morire simbolicamente in un’opera che non è solo un “feticcio filiale”, ma oggetto in quanto gesto generativo di esperienza, conduce chi ne fruisce oltre i limiti del corpo pensabile e circoscritto nella temporalità mortale. Lo spirito magico che anima l’opera, in fondo, non è nient’altro che la materializzazione del desiderio di non finire, che si radica sullo stesso rito apotropaico della morte che faceva interiorizzare la voce degli dei. L’oggetto è testimonianza di una dimensione del possibile dove si opera il ricongiungimento momentaneo tra fusione e separazione, tra la singolarità e il sentimento del Tutto. Investito di un senso, agisce sulla percezione in modo emozionale totalizzante, facendo appello a una sfera del pensiero pre-logica e magico-simbolica, che il cineasta e teorico sovietico Sergej M. Ejzenštejn ha definito indifferenziata, attribuendola ad un “pensiero primitivo-tribale”:
“… Allo stadio del pensiero indifferenziato, la parte è anche contemporaneamente il tutto. Non c'è unità della parte e del tutto, ma s'ottiene un'identità obiettiva nella rappresentazione del tutto e della parte. Poco importa se si tratti della parte o del tutto: assolve ugualmente alla funzione di aggregato e di tutto. Questo non soltanto accade nei più semplici campi e atti pratici, ma appare immediatamente non appena si esca dai limiti della più semplice pratica «oggettiva». Se, per esempio, ricevete un ornamento fatto con un dente d'orso, questo significa che vi è stato dato l'intero orso o il suo equivalente: la forza dell'orso nel suo complesso. ..”
Tornando così all’inevitabile Simondon, possiamo concludere che la capacità di esperire opere che ci allontanano (con sollievo magico) dai limiti del reale, in virtù della “danza alla rovescia” del pensiero liberato di un “corpo senza organi”, affonda le sue radici nel fatto che l’ontogenesi dell’individuo non è nel corpo come limite, ma è un processo (corporeo e non) in divenire: l’individuo non è un’entità definita e determinata, com’è costretto a essere in relazione al Potere e al ruolo sociale, ma una individuazione incessante, che avviene in coppia con il proprio ambiente. L’artefatto oggettuale corrisponde a ciò che Simondon definisce “oggetto tecnico”, reca tracce percepibili di un rapporto di ideazione e scambio energetico con l’umano, e non diversamente da quanto sostiene Bredekamp, esprime un modo di esistenza relazionale: così rilancia, rivivificandola, l’appartenenza al movimento essenziale di ritorno al Tutto sepolto sotto la coscienza del sé. La relazione tra essere umano e oggetto, il couplage simondoniano, non si riduce infatti a un dominio dell’uno sull’altro, è una relazione che produce effetti “costituenti” su entrambi i termini. È questa reciprocità a mobilitare lo scambio energetico con l’oggetto, il momento vitale della percezione “chiara e confusa” di una costellazione di senso sconosciuta quanto familiare, irriducibile a una narrazione. È quest’effimera immortalità dell’oggetto, al di là dell’epistème storica in cui è realizzato, persino nell’era post-artistica del presente, a restare il suo autentico daimon, l’essenza del suo spirito magico.