A Meret Oppenheim piaceva l’arte
Patrizia Catalano
Cosa significa ‘essere artista’? Esiste un patentino che comprova che si è artisti piuttosto che architetti, scenografi o stilisti?
E’ il valore commerciale di un’opera o di un autore a sancire che quell’artista, quell’opera ha un valore artistico? Certo che no, la storia ci prova quante volte “nel corso del tempo” ci siamo sbagliati trascurando autori oggi presenti nei più importanti musei di arte moderna e contemporanea e valorizzandone altri, spesso quando erano in vita, che poi sono caduti nell’oblio (e con loro tutti i collezionisti e gli investitori che li hanno supportati).
Proporre in questi anni i progetti di HoperAperta ad autori, produttori, galleristi mi ha portato a riflettere e a cercare una risposta che giustificasse quello in cui credo fermamente: fare arte è una necessità (degli artisti) per nutrire il proprio spirito, tutto il resto viene in secondo piano.
Esprit Magicien, il tema che HoperAperta propone per la sua quinta edizione al FuoriSalone di Milano, mi aiutato a confermare le mie ipotesi. Come sempre sono le letture ad aiutarci a dipanare matasse incoerenti ed ecco che “Meret Oppenheim. Afferrare la vita per la coda” di Martina Corgnati per i tipi di Johan & Levi ha reppresentato per me una lettura illuminante.
Come spesso succede a chi si occupa di design conoscevo Meret Openheim principalmente per quel paio di opere che l’hanno resa celebre al mondo del design: ‘Das Früstück in Pelz’ (colazione in pelliccia) del 1936, che portò la giovane Oppenheim a una precoce celebrità poiché la tazza rivestita di pelliccia realizzata nel ’36 per la galleria Charles Ratton di Parigi fu acquistata da Alfred H. Barr jr. per il MoMA di New York diventando uno dei più emblematici manifesti del Surrealismo e ‘Tisch mit Volgelfüssen’ il tavolo ovale con zampe di uccello che l’artista disegnò nel 1936 quando partecipò alla mostra su ‘l’Arredamento fantastico’ insieme a Max Ernst e Leonor Fini, oggi prodotto da Cassina. Ma nel volume che la Corniati ha scritto collaborando con Lisa Wagner nipote di Oppenheim esce una figura d’artista che a mio avviso rappresenta un modello per il contemporaneo, per sciogliere quel nodo ancora insoluto di incomunicabilità tra le arti.
“…Meret Oppenheim”, scrive nella prefazione la nipote Lisa Wenger “era un’artista. Della sua vocazione una volta disse: ‘L’arte suscita passione in me, l’arte mette in movimento lo spirito’. Il volume segue attraverso lettere e testimonianze la vita dell’artista dagli esordi, quando neanche ventenne lascia la casa paterna per arrivare a Parigi alla ricerca di qualcosa che forse ancora non sapeva bene identificare, fino ai primi anni Ottanta del secolo scorso quando la Oppenheim, musa surrealista e artista celebre nel mondo, si occupa di ecologia e del rapporto tra natura e cultura anticipando con grande lucidità quelli che sarebbero diventati i temi improrogabili di questi anni Venti.
Quella dichiarazione “mettere in movimento lo spirito” è stata la ragione per cui Meret ha affrontato tantissime situazioni senza mai tradire il suo punto di vista di artista. Certamente è stata una donna fortunata, nascere agli inizi del Novecento in Europa le ha permesso di confrontarsi con un mondo culturalmente vivace e in fermento. Meret si reca diciottenne e con pochi soldi a Parigi installandosi all’Hôtel des Écoles e da allora avrà la fortuna di incontrare diventandone amica, amante, musa, confidente personaggi come Alberto Giacometti, Marcel Duchamp, Max Ernst, Man Ray, Leonor Fini. Un punto fermo nella vita della Oppenheim è la sua predisposizione a cimentarsi in molte imprese. Il motivo di questo suo nomadismo mentale e culturale può essere dato dal suo carattere: era a tutti gli effetti una donna libera, versatile sempre pronta a mettersi in gioco. Una libertà nata anche dal tipo di educazione ricevuta dalla sua famiglia svizzero tedesca e da una formazione, per certi versi discontinua: da adolescente, cambia molti collegi e frequenta kinderheim estivi, trascorre un anno formativo importante per il suo percorso presso la scuola di Rudolf Steiner a Basilea (1928). Ma certamente a segnare la sua vita d’artista sarà l’incontro con Carl Gustav Jung che le permetterà di esplorare il valore dei sogni e dell’inconscio. “Meret Oppenheim lavorerà sui suoi sogni per tutta la vita, facendone un elemento di ispirazione costante e utilizzandoli spesso come ‘guide’ interiori… considerava i sogni degli avvenimenti e ogni volta decideva, non quanta verità fosse racchiusa in essi, ma quanto futuro”. Il sogno permette visioni che vanno al di là del foglio da disegno e che le consentono, anche nei periodi più difficili, di cimentare la sua arte in situazioni versatili che sono forse le più interessanti per individuare un percorso d’artista fuori dalle convenzioni
Per esempio, non disdegna di cimentarsi nel disegno di accessori: l’incontro a Parigi con la stilista Elsa Schiapparelli e con l’eccentrica artista Leonor Fini la porta a disegnare guanti (con le estremità delle dita tagliate), anelli con il pelo (prima idea per Colazione in Pelliccia), collane a forma di bocca dal tratto “talvolta macabro e, più spesso, provocatorio”. E oggetti: oltre a una collezione di mobili laccati di cui non vi è più traccia, l’artista nel 1936 espone ‘Colazione in Pelliccia’, una tazza da te con piatto e cucchiaio comprata da Meret in un grande magazzino rivestita da uno scampolo di pelo di gazzella bionda, alla Galerie Ratton. In una vetrina di Ratton Oppenheim espone accanto a lo ‘Scolabottiglie’ e ‘Why not Sneeze Rose Sélavy’ di Marcel Duchamp, ad ‘Habakuk’ di Max Ernest, a sculture di Pevsner, di Picasso, e a ‘Palla Sospesa’ di Giacometti oltre che a maschere, feticci, e oggetti di culto provenienti dalle Americhe, dall’Africa e dall’Oceania. E ancora, “cristalli, piante carnivore, un formichiere impagliato, uova di uccelli e pietre alterate da cause naturali…” una sorta di Wunderkammer surrealista che ci restituisce il significato di ‘fare arte’ di quegli anni. Poco più tardi, nel 1939 Leo Castelli e René Drouin aprono una galleria di arti decorative in Place Vendôme, tra l’hoel Ritz e la boutique di Elsa Schiapparelli. Lì Meret, assieme a Max Ernst e a Leonor Fini, inaugura la mostra su ‘l’Arredamento Fantastico’ presentando il tavolo ‘Traccia’ con zampe d’uccello impresse sul piano del tavolo in legno dorato e le gambe in bronzo che riprendono la forma delle zampe di un trampoliere. Si tratta di una straordinaria operazione di dialogo tra le arti che varrebbe la pena di riprendere ancor oggi in cui mobili antichi dialogavano con i pezzi della collezione di René Drouin, i mobili fantastici di Oppenheim e i dipint di Max Ernest e Leonor Fini: purtroppo la mostra segnò fu la fine di un’epoca, l’inaugurazione fu fatta a lume di candela perché saltò la luce e poco dopo tutti furono costretti a lasciare Parigi a causa della guerra.
Fare arte per fare arte, porta la Oppenheim a un adattamento fisiologico ai periodi storici che attraversa e ai luoghi in cui risiede. Conclusasi l’esperienza parigina, la ritroviamo in Svizzera, terreno meno fertile alla visione surrealista dell’artista. Ma non si scoraggia: la sua esperienza nell’ambito del restauro, attività che le permetterà di sostentarsi per molti anni, la porta a frequentare le botteghe antiquarie di Basilea e di Berna e di portare sé stessa anche in questo mondo. E’rimasta traccia in particolare di una vetrina che l’artista allestisce per un antiquario bernese nel ’49 dal chiaro tratto surrealista “ancora una volta a dimostrare come per Meret non esista una differenza sostanziale fra allestimenti, maschere, accessori, opere d’arte propriamente dette: tutto risponde al medesimo gusto, alla stessa grande originalità, allo stesso spirito creativo”, scrive Corniati. E per certi versi è proprio in Svizzera che si delinea una poetica Merret a cui sono più interessata, senza nulla togliere al suo lavoro d’artista nel senso più tradizionale del termine. Non conoscevo il dramma farsa scritto da Picasso nel ’41 a cui la Oppenheim conferisce il titolo “Il desiderio afferrato per la coda”. Il 27 novembre del ’56 l’opera andrà in scena a Berna con regia di Daniel Spoerri. Meret si occupa di scenografia, dei costumi (sarà anche attrice in una piccola parte recitando provocatoriamente seminuda rivestita da “un sensualissimo velo ricamato con foglie e rametti”). Sue anche le maschere: disegnare maschere e costumi è un’altra delle passioni. E per concludere nel delineare il profilo ‘dell’artista ideale’ citerei due altri capitoli della sua vita. ‘Festa di Primavera’ segna la nascita della performance così come la concepiamo oggi. Il tutto viene ideato nell’aprile del 1959 da Meret al Café du Commerce, locale storico bernese dove l’artista era di casa. La Oppenheim progetta una performance a casa dell’amico Toni Grieb, una ‘festa iniziatica’ a memoria degli antichi riti propiziatori primaverili. Una giovane donna viene assoldata per fungere da tavolo che, per l’occasione, viene ‘allestito’ di fiori appositamente raccolti nei boschi dall’artista e da ogni genere di prelibatezze culinarie. La performance compiuta dalla Oppenheim, Grieb, Lilly Keller artista e compagna di Grieb, il pittore astrattista Hannes W. Witschi e Rainer U. Althaus, uomo di teatro, consisteva nel prendere direttamente il cibo con la bocca dal corpo della ragazza. Un rituale erotico performativo, decisamente eccentrico che verrà ripreso negli anni a venire e che anticipa di una decina d’anni la Body Art. E per chiudere, il suo impegno nell’arte pubblica. E’ il 1966 quando realizza il primo modello di fontana a cui ne fanno seguito altri 6: purtroppo solo uno verrà realizzato e sarà insieme alla grande decorazione prodotta per la scalinata d’accesso all’aula magna del liceo Monbijou di Berna. E qui ritroviamo Meret urbanista e architetto, a convalidare un’idea molto antica: l’arte può e deve essere praticata ovunque, ciò che conta è il pensiero che la sostiene. Commenta la Corniati a questo proposito: “La creatività, se è libera, si irradia dappertutto e affronta facilmente i salti di scala, spaziando da abiti e accessori a dipinti e mobili di arredamento, da disegni a decorazioni murali, da fontane a piccoli oggetti. Inutile e fuorviante voler stabilire una qualsiasi forma di gerarchia fra questi campi di espressione dello spirito”.
Pro Helvetia Fondazione Svizzera per la Cultura