Dell’imperfezione nell’abitare

by Maurizio Barberis

L’imperfezione è una virtù, come sosteneva Greimas in un piccolo testo di qualche anno fa, poco più di un divertissement, una virtù da cui possiamo dedurre i motivi e le necessità di una collezione d’arte come forma di un linguaggio che si fa necessità. Necessità dell’abitare, della casa come estensione dell’anima del collezionista moderno. Va detto che in questo caso anche le opere di design debbono essere considerate come opere d’arte tout court, in virtù dell’intenzione del collezionista, della sua volontà di appartenenza, del contesto in cui vengono inserite.

From the House of Silence, by MB, (in una data imprecisata di un recente passato) I

L’opera acquisisce una sua particolare autonomia mentre vive una vita di relazioni con le altre opere raccolte, con cui si crea un intenso dialogo, che infine genera l’impressione di uno spazio unitario, un’unica opera che potremmo definire un’opera d’arte totale, una Gesamtkunstwerke. L’imperfezione nasce dall’incompletezza, dalla sensazione che manchi sempre qualcosa per terminare l’opera, qualcosa che ne configuri in modo definitivo i confini. Si potrebbe dire che il vero obiettivo di un collezionista sia la costruzione di un luogo le cui caratteristiche ricordano da vicino la sacralità del tempio, laddove bellezza e perfezione incarnano, nel mondo della materia, la sostanza immateriale ed eterna dello spirito divino.

From the House of Silence, by MB, (in una data imprecisata di un recente passato) II

Naturalmente non sempre l’obiettivo è raggiunto e quest’ansia di immortalità, liberata dal peso della materia, spesso si traduce nel suo contrario e dal tempio si passa al retrobottega del rigattiere e del cenciaiolo. Imperfezione, appunto. Di chi la colpa? Buone le intenzioni di partenza forse, ma si sa che la via del cielo è piena di ostacoli, il primo dei quali è rappresentato dall’avidità degli umani, pronti a trasformare lo spirito in merce e la merce in spirito, la bellezza in un buon affare. Niente di più sbagliato. Non esistono collezioni d’arte in cui lo spirito è sottomesso alla prosopopea mercantile del ‘buon affare’ del martello del battitore d’aste. Solo l’opera del collezionista decide dell’immortalità del luogo. Più una collezione è importante e maggiormente il telos delle opere che la compongono aderisce ad una condizione di verità. Ma in cosa consiste il principio di verità in un’opera? E in che modo questo si estende, si dilata e si radica nei luoghi destinati ad ospitarla, casa, tempio o museo che siano? Il valore di scambio di un’opera rappresenta solo il fragile aspetto secondario con cui la materia cerca di corromperne lo spirito? La durata nel tempo del valore di scambio di un’opera è una garanzia sufficiente per giudicare il suo reale valore?

From the House of Silence, by MB, (in una data imprecisata di un recente passato) III

Ma una casa, e quindi una collezione che ne rifletta lo spirito, non è composta di soli quadri, o fotografie che siano, appesi alle pareti delle stanze. Esistono, nella definizione di un ambiente, nel senso di ‘Gesamstkunstwerke’, un infinito numero di oggetti che concorrono a definirne l’insieme fenomenico, a partire dalle sue le qualità estetiche, a partire dall’architettura della casa stessa, un involucro non del tutto anonimo, in grado cioè di dialogare in modo non superficiale con le opere e gli oggetti che ne compongono l’orizzonte.

From the House of Silence, by MB, (in una data imprecisata di un recente passato) IV

Qual è dunque il peso, in termini di quantificazioni estesiche, dell’ambiente in cui le opere che compongono la collezione sono collocate. Qual è il peso, simbolico o funzionale, delle aspettative che un luogo evoca? Un tempio o una dimora un museo o un ospedale riflettono in identica maniera le qualità intrinseche di un’opera, qualsivoglia sia la sua tecnica, le sue definizioni e il valore dei suoi contenuti? E’ corretto dunque parlare di collezionismo quando gli ambienti non riflettono il gusto e le scelte di un unico curatore, ma sono il risultato di una stratificazione collettiva nella durata del tempo storico, come nel caso di un museo o di un tempio?

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Ma veniamo al secondo elemento che concorre a trasformare una semplice luogo in un’opera d’arte, ovvero l’insieme degli oggetti che, indipendentemente dalle loro funzioni, definiscono e delimitano il recinto sacro dell’abitare, definendone le qualità in maniera forse più libera rispetto alle certificazioni mercantili legati alle opere d’arte e forse più radicate nel gusto ‘sociale’ del padrone di casa. Ma l’arte del collezionare allude forse ad un’altra disciplina che non vede nelle cose solo un fascio di funzioni, ma coglie in maniera simbiotica un altro sistema di relazioni che poco o nulla a che fare con le banali funzioni della vita quotidiana. Una disciplina fatta di silenzi rumorosi, di sensorialità rarefatte, disposte nella quiete domestica per accogliere quello spirito che accomuna ogni opera d’arte degna di questo nome:

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La casa del collezionista è dunque il risultato della stratificazione di tre diversi valori che compongono una collezione d’arte: l’involucro architettonico e la sua capacità di riflettere positivamente il sistema di relazioni che lega le singole opere, l’insieme degli oggetti che ne delineano l’orizzonte funzionale anch’essi chiamati a concorre alla qualità ambientale della casa, al suo valore di opera d’arte in sé, e naturalmente le opere d’arte che compongono il nucleo silente di quell’ambiente.

From the House of Silence, by MB, (in una data imprecisata di un recente passato) VII

“...Così la figuratività non è un semplice ornamento dell cose: essa è questo schermo dell’apparire la cui virtù consiste nel dischiudersi, nel lasciarsi intravedere, grazie o a causa della sua imperfezione, come una possibilità di senso ulteriore. Gli umori del soggetto ritrovano in tal modo l’immanenza del sensibile...” ( Algirdas Julien Greimas, Dell’imperfezione, pg 57)