Mimesis e dissolvenza. Divagazioni a partire dal Maraya Concert Hall
di Michela Davo
Dell’antico splendore della città di Al-‘Ula, che si trova nella regione di Medina in Arabia Saudita, restano oggi le mura attorno all’abitato urbano, composto perlopiù da case in mattoni e fango. Tuttavia, in linea con il tentativo di trasformare l’Arabia Saudita in meta turistica, nel 2021 è stato approvato il progetto di un aeroporto; nella medesima direzione andrebbe l’idealizzazione del Maraya Concert Hall, a cui molte tra le principali riviste di architettura, tra le quali «Abitare» e «Interni Magazine», hanno dedicato articoli o approfondimenti. Il Maraya, una costruzione cubica a specchi, alta 26 metri e destinata a ospitare per lo più eventi musicali, è stata progettata dallo studio Giò Forma di Milano e sorge in uno spiazzo sostanzialmente desertico, circondato da rocce secolari.
Le caratteristiche dell’edificio rendono possibile un particolare tipo di mimesi: il paesaggio circostante, che nella sua forma esteriore non stenteremmo a dire naturale (con tutte le cautele che l’aggettivo impone), appare inalterato da processi di urbanizzazione e modernizzazione e si riflette in una costruzione che, invece, deve la propria esistenza a un mutato scenario sociale, ossia alla globalizzazione (che ha permesso a uno studio italiano di progettare una sala per concerti in Arabia Saudita) e ad alcuni portati della tecnologia moderna, senza i quali non sarebbe stato possibile concepire una struttura integralmente a specchi e in cui alcuni elementi caratteristici della dimensione abitativa, porte e finestre, appaiono sfumati.
Quello che a prima vista sembra un classico esperimento mimetico, pone invece in evidenza alcune questioni estetiche e sociologiche, in certo senso reificate nell’atto architettonico. Inoltre, se crediamo, con Gaston Bachelard, che «lo spazio, nei suoi mille alveoli, racchiude e comprime il tempo: lo spazio serve a questo scopo» (La poetica dello spazio, Edizioni Dedalo, Bari, 2015, p. 36), dobbiamo riconoscere che in questo caso il rapporto tra lo spazio e il tempo appare sistematicamente mutato: da un lato l’edificio continua a essere un luogo chiuso, che occupa un preciso spazio definito da confini, dall’altro le soglie della sua esistenza non sono più immediatamente percepibili, e puntano anzi a un’amplificazione che le renda intangibili e che in certo modo consenta un dissolvimento della costruzione nel paesaggio.
La circostanza obbliga a una declinazione nuova del concetto di cornice simmeliana: il ruolo canonico del confine – ossia quello di delimitare nello spazio l’esistenza di un’entità e al contempo di manifestarne l’autonomia per così dire politica dal mondo circostante, e cioè la propria affermazione come parte indipendente dal tutto – sembra subire una sorta di mutamento, estetico più che ontologico. Il confine, di fatto, continua a svolgere il ruolo della cornice, perché da un punto di vista concreto testimonia a favore della delimitazione spaziale di un oggetto, in questo caso un edificio, ma al contempo si pone come linea di divisione tra un mondo, il paesaggio esterno, e la riproposizione parziale, mediata dalla tecnica, del medesimo scenario.
Andrea Palladio, Villa Rotonda, Vicenza
Da un punto di vista apparente e meramente estetico, non c’è perciò una netta distinzione tra lo spazio e l’oggetto collocato al suo interno: si tratta di un processo mimetico che tende ad attenuare la dimostrazione di autosufficienza che, storicamente e socialmente, gli oggetti hanno teso a imporre. Nella medesima ottica simmeliana, si potrebbe allora rilevare che il confine in questione, anziché figurare come momento di passaggio dalla realtà alla mimesis, sia piuttosto «un’energia viva che attira i due soggetti l’uno contro l’altro, sigillandoli nella rispettiva unità, ma al tempo stesso frapponendosi tra quelle unità come una sorta di forza magnetica che irradia repulsione nei due sensi. […]. Ogni volta che gli elementi di due elementi convergono su uno stesso oggetto la possibilità della loro coabitazione viene a dipendere dall’esistenza di una linea di confine che corre tra le rispettive sfere di pertinenza, delimitando quell’oggetto al suo interno» (Georg Simmel, Sociologia dello spazio, in Id., Stile moderno. Saggi di estetica sociale, Einaudi, Torino, 2020, p. 42).
È un’operazione antitetica rispetto a quella svolta tradizionalmente, e ancora una volta illustrata da Simmel, dalla cornice dell’opera d’arte. In questo caso, infatti, il perimetro dell’oggetto artistico serve a isolarlo dal mondo esterno e a formalizzare, per contro, il suo ripiegamento interno. Il Maraya Concert Hall, invece, trae il proprio valore artistico dall’interazione costante, continua e perfino obbligata con il paesaggio esterno: qualora gli specchi smettessero di riflettere il deserto e le rocce, l’edificio si mostrerebbe come un puro oggetto.
Claude Lorrain, Capriccio with ruins of the Roman Forum
Vale infine la pena ricordare che con paesaggio, generalmente, si intende una porzione dello spazio universale, definita da criteri estetici peculiari e disseminata di oggetti che singolarmente non risulterebbero sufficienti a determinarne la composizione. Si tratta, in sintesi, di uno spettacolo. La parte di deserto che circonda il Maraya viene definita paesaggio anche in relazione all’edificio che lì sorge, e che contribuisce a giustificare la ‘sezione’ spaziale del luogo; in questo modo, le pareti specchiate della sala per concerti riflettono una parte di paesaggio e, nell’amplificazione di una sua ulteriore porzione, finiscono per raffigurarne uno nuovo: si tratta di un’operazione che ricorda l’iter necessario per dipingere un quadro, e che consente di individuare nel bordo dell’edificio una sorta di cornice. Ma, a differenza di un dipinto, che una volta concluso si emancipa dall’immediato contesto di riferimento, gli specchi del Maraya possono dar vita a un paesaggio solo se lo spazio circostante non si dissolve.