Luce

di Maurizio barberis

All’inizio dell’ottocento l'opera d’arte cessa definitivamente la sua funzione primaria, di rappresentazione, per divenire pura forma. La percezione del senso passa dalla figura alla forma e l'arte inizia a realizzarsi dentro una propria dimensione totalmente autonoma. La luce e il suo rapporto con l'opera si modificano, e le sue qualità simboliche si trasformano in valori costruttivi. Non più oggetto di rappresentazione né medium percettivo della forma, la luce assume un valore proprio, che, alla pari con altri significanti, contribuisce a caratterizzare un particolare ambiente poetico. Il suo valore metafisico si attua nel libero gioco dell'astrazione, dove l'autore riduce il trascendente a fenomeno, senza più aspirare a trasformare il fenomeno in trascendenza.  Esistono chiare differenze tra il modo contemporaneo e il modo antico di trattare la luce. Nel modo antico è sempre interpretata come epifania del divino, nel modo contemporaneo é variabile plastica, soggetta a manipolazioni e inferenze come qualsiasi altro materiale.

Caravaggio, Emmaus, Brera

 Nella pittura classica la manipolazione della luce trasforma la materia in trascendenza, mentre nell'arte contemporanea la trascendenza si trasforma in materia, ingabbiata dalla necessità sinestetica dell'astrazione. Così assume importanza, contro alla narrazione, l'epica delle materie, delle tecniche, delle loro correlazioni percettive, delle loro corrispondenze sentimentali. Dove la luce è espressione di una narrazione, simbolica, religiosa, mitologica o profana, ne rappresenta anche il registro primario, la sponda metafisica per ogni futura scienza della visione che vuole costituirsi come fondamento ideologico di una svolta anti-narrativa dell'opera d’arte.

Lazlo Moholy Nagy, Lichtrequist

Così la luce, nella pittura di genere olandese, corrisponde al passaggio dall'enfasi nouminosa all'apologia della materia. Dalla pittura laica degli olandesi nasce l’attenzione al riflesso di luce sulla brocca d'acqua o sul tessuto damascato. E' questa pittura l'annuncio della fine della narrazione idealistica e la nascita di un’opera basata sull’esperienza del fenomeno e della materia, che attraverso la razionalità o ciò che resta della rappresentazione, giustifichi l'abbandono del divino come motore dell'epos narrativo. Non è forse un caso che l'olandese Baruch Spinoza si guadagni da vivere fabbricando lenti, e che i primi movimenti legati all’astrazione pittorica abbiano un olandese, Mondrian, come protagonista assoluto. La pittura moderna e astratta di cui Mondrian è protagonista si pone la questione della luce come esperienza della trascendenza rovesciandone le premesse, attraverso un meditato azzardo dei suoi elementi formali e costruttivi.

Mondrian, Campanile a Domburg, 1909

Attraverso questi temi si costruisce, negli anni Venti del secolo scorso, una nuova unità delle arti.  Grazie alla riduzione della trascendenza a fenomeno si incontrano di nuovo architetti e artisti in movimenti che mettono in comune le proprie esperienze ed i propri obbiettivi, come accade in Germania la Frühlicht. La nascita del moderno è segnata dalla possibilità di ricompattare l'esperienza estetica in un fronte comune, di declinarla sotto un unico denominatore. Che sia luce o che sia ombra poco importa.

Mondrian, Campanile a Domburg, 1909, al centro, Campanile, 1910, a destra, Facciata di chiesa, 1914

Il moderno scopre e sottolinea l'importanza del margine, del confine, che, attraverso il gioco sinestetico, consente di aprire a nuove corrispondenze, a nuovi significati, rompendo la costruzione dogmatica dello sviluppo temporale dell'opera. Intendere la luce come narrazione, come metafora della trascendenza, è il motivo che accomuna pittori e artisti dal Trecento al Barocco, che si trasforma nell’ossessione compositiva di Turner, nelle sue ricerche cromatiche sui contrasti simultanei del colore, utilizzati negli ultimi quadri per cercare di ottenere il massimo di luminosità possibile. L'eccesso di attenzione per il fenomeno luminoso comporta l'annullamento della metafora narrativa, sottolineando viceversa il ritorno a una dimensione concreta dell'esperienza estetica. Appare evidente l'importanza che assume in questo contesto la nozione di ambiente. Il lavoro di Moholy-Nagy al Bauhaus anticipa con l'arte cinetica il rapporto tra spazio e luce, che trasformerà, nelle dichiarazioni degli artisti del primo dopoguerra, l'opera in ambiente totale. Si annulleranno negli anni a venire le differenze metodologiche tra le aree disciplinari, riducendosi i vari percorsi espressivi all'unico comune denominatore della figura dell'artista. Il rapporto con la natura si rifonda sull'esperienza, sul modello goethiano, e si introduce la possibilità di una nuova analogia, non più basata sull'equazione immagine=immagine ma sull'equivalenza dei valori costruiti sul senso realistico del percepito. Il modello su cui si baserà d'ora in avanti la rappresentazione del mondo naturale è generato da uno slittamento semantico della rappresentazione, che si costituirà per l’arte astratta su equivalenze ‘sinestetiche’. La sinestesia è ancora legata alla rappresentazione e costituisce il tramite dell'opera con il suo referente. Una corrispondenza tra suono e colore, un titolo che allude a possibili interpretazioni multiple, giustifica, nel primo periodo dell'avanguardia, l'esotismo della rappresentazione astratta.

Su due opere in particolare mi vorrei fermare: il mitico Brodway Boogie-Woogie di Mondrian e la Lichtrequisit di Lazlo Moholy-Nagy. Il dipinto di Mondrian, una delle ultime tele a cui il pittore lavora, rappresenta una insolita conclusione della sua parabola pittorica. Par quasi un voler chiudere il cerchio, un pentimento finale, nel sentire la morte che si avvicina. Va ricordato, per inciso, che Mondrian aderisce alla società Teosofica nel 1909, che è anche la data del suo primo vistoso cambiamento stilistico e che di tale adesione conserverà memoria per tutta la sua vita. Il suo interesse per la natura passa attraverso una riduzione delle componenti strutturali degli oggetti che rappresenta, riduzione che porterà  allo schematismo rigoroso delle sue Composizioni. Allo stesso modo si potrebbe pensare che alcuni temi  da lui sviluppati nell'ultimo fase del suo lavoro ripercorrano al contrario quel processo di scomposizione e reintroducano (attenzione al titolo) una dinamica narrativa all'interno dell'opera. L'opera non é isolata. Fa parte, con altri tre o quattro lavori, di una serie che aveva come oggetto luoghi della città, come Place de la Concorde, New York, la Composizione London, Trafalgar Square, e l'incompiuto Victory Boogie-Woogie. Negli anni precedenti si possono trovare solo pochissimi esempi di allontanamento dal tema suo principale, quello delle Composizioni, tra le quali un "tableau-poeme" del 1928 e due "Fox-trot "del 29 e del 30. I titoli rimandano ad ambienti parigini, e la declinazione sinestetica dell'opera avviene attraverso il modello beaudleriano delle Corrispondances. Il rimando sensoriale mantiene intatta la monosemanticità dell'opera, e alludendo o trasferendo musica e poesia in linguaggio pittorico, non esce mai dalla matrice visiva dell'opera.

Mondrian, a sinistra, New York City, 1942, al centro, Trafalgar Square, 1939-1943, a destra, Place de La Concorde, 1938-1943

E veniamo al "Brodway boogie woogie". Ci sono alcuni aspetti in questo dipinto che preme evidenziare: il primo riguarda la citazione di un ambiente sonoro-visivo che allude a un luogo (Brodway, la principale arteria di New York,) estraneo all'opera, e richiama, con diversa modalità,  i due temi abbozzati tredici anni prima. Il secondo riguarda la composizione delle linee principali del dipinto, che, pur mantenendo una rigorosa ortogonalità, trovano un soggetto, New York, strutturato esattamente nel medesimo modo. Il dipinto di Mondrian potrebbe essere interpretato come una mappa della città. Il mondo della natura, da cui l'olandese era partito all'inizio della sua avventura, si ribalta nella perfetta artificialità, neodomestica, della grande metropoli. Il terzo punto riguarda la disposizione dei colori e quindi della luce. I colori rimangono quelli di sempre: giallo rosso e blu, i primari della sintesi sottrattiva. Ma il quadro risulta percorso da una luminosità più brillante e dinamica, che ad un primo sguardo distratto fa apparire più colori di quanti ce ne siano in realtà. Mondrian usa una tecnica "pointilista", e i colori vengono disposti quasi fossero piccoli frammenti, producendo un effetto da sintassi partitiva sulla retina dell'osservatore. Ovviamente, a differenza del modo  pointilista, il frammento è qui usato per restituire la sensazione della frammentazione della dinamica urbana, piuttosto che tentarne la rappresentazione. Si tratta in ogni caso di un tentativo di rappresentazione attraverso un 'analogia’ sinestetica, che attiva il processo immaginativo contro quello transpositivo. E' molto importante capire come l'analogia usata da Mondrian fosse provocata più da un fatto letterario che pittorico, più da una corrispondenza estetica che da una catastrofe dei sensi.

Mondrian, Broadway Boogie-Woogie, 1942-1943

La carriera artistica di Moholy Nagy è segnata dal suo lavoro di pittore, e si nutre dell'amicizia di personaggi come Kurt Schwitters, con il quale partecipa nel '22 al congresso dei costruttivisti e dadaisti a Weimar. Ma ciò che più di ogni altra cosa segna la sua esperienza d'artista è il lavoro al Bauhaus, dove dirige il laboratorio dei metalli. E' anche uno dei primi a sostenere la sperimentazione fotografica e cinematografica, nonché ad applicare i suoi principi pittorici nel campo del progetto grafico. In ogni caso non è uno scultore.  Moholy Nagy realizza, prima ancora di Calder e dopo Naum Gabo, una costruzione cinetica, che implica lo studio di un meccanismo, di un movimento complesso della luce articolato in tre fasi differenti. La macchina funziona grazie a un meccanismo luminoso, composto da centinaia di piccole lampadine, che diviene il soggetto di un film girato da Moholy nel 1930: Black, White and Gray. Il movimento cinetico rappresenta la sintesi di tutto il suo percorso artistico, e la costruzione meccanica da lui realizzata indica la prima proiezione di un pensiero visivo all'interno di un ambiente. Si realizza così il primo esempio di arte come 'environement', di spazio come opera 'totale'. La macchina è solo uno strumento e non ha alcun valore estetico. La ripresa cinematografica testimonia del desiderio di Moholy Nagy di concepire una pittura in movimento, dove la stesura grafica viene sostituita dalla fotografia e il movimento virtuale dell'immagine dal movimento reale del fotogramma, sommato al movimento programmato della 'macchina'. L'effetto finale è duplice: da un lato il reperto cinematografico, che costituisce una pittura cinetica che ha come soggetto le possibili cangianze chiaroscurali di un ambiente. Dall'altro lo spazio occupato dalla macchina si trasforma in un ambiente, dove il rapporto luce-spazio ripercorre la strategia sinestetica del teatro wagneriano, di coinvolgimento totale dello spettatore nello spazio programmato. L'idea quindi è quella del coinvolgimento emotivo dello spettatore attraverso una sorta di piccola catastrofe sensoriale, prodotta dalle modificazioni continue della luce all'interno dello spazio.

Lazlo Moholy Nagy, Lichtrequist

Fenomeni ottici, trasformazioni, 'mobiles', e macchine ottiche sono gli ingredienti principali che questa concezione wagneriana del rapporto tra spazio e luce, e discendono in modo più o meno diretto dalle sperimentazioni di Moholy Nagy. Il fenomeno dell'arte cinetica viene storicizzato da Frank Popper in un saggio del 67, preceduto da altri scritti famosi, tra cui quello di Umberto Eco e Bruno Munari sull'arte programmata, in cui i due autori sostengono un’idea di arte cinetica molto vicina alle teorizzazioni sull’opera aperta. L'opera totale si trasforma, nelle spiegazioni di Munari e Eco, nell'opera aperta di buona memoria.                                                                                                                                                                                                      Ma sentiamo invece con quali parole Popper descrive l'approccio del compositore russo Alexander Scriabin al mondo delle sinestesie: " Era uno degli aspetti più importanti della ricerca di Scriabin, che, a partire dalle sue letture teosofiche o estetiche diede libero corso alla sua immaginazione. Egli sognava di illuminare intere sale da concerto, ma sembra che nonostante i desideri espressi dal compositore, le rappresentazioni del Prometeo alla Carnegie Hall di New York e al teatro Bol'soj di Mosca non impiegassero che un piccolo schermo collocato dietro l'orchestra, sul quale apparivano le proiezioni. L'ultima opera di Scriabin, il Mistero, incompiuta al momento della sua morte prematura, avvenuta nel 1915, doveva dare una dimostrazione impressionante della corrispondenza dei dati sensuali e poetici mediante elementi musicali, coreografici e drammatici, ai quali dovevano aggiungersi grandiose illuminazioni cromatiche e profumi sparsi a profusione."

Alexander Scriabin

Ecco dunque un esempio di come un giovane artista poteva elaborare l'idea di environment visivo-sonoro nei primi anni del secolo. L'impressione che ne risulta è di un'opera tutt'altro che aperta, poiché non c'è nulla di meno interpretabile di un'opera 'programmata': nella sua doppia dimensione, di evento musicale e di evento visivo. Corrispondances, appunto.

Gli anni del dopoguerra sono caratterizzati da una programmazione estremamente diversificata, che dai quadri luminosi di Frank Malina  e di John Healey sviluppa le dimensioni spettacolari dell’opera di Nicolas Schoffer, dai polaroid di Bruno Munari, dallo sviluppo dell'idea di cine-pittura, tele-pittura foto-pittura che hanno i suoi precedenti storici nello sperimentalismo di Moholy e del dadaismo di Schwitters. A questo si aggiunga lo sviluppo della ricerca del rapporto tra luce  e spazio opera dei molti gruppi di artisti europei, tra i quali vale la pena di ricordare il Gruppo di Ricerca d'arte visuale, (Grav) cui fa capo Julio Le Parc, e i gruppi Nul e Zéro, in Olanda e Germania con il tedesco Heinz Mack.

Spatiodynamism as seen in Schöffer’s Spationynamique 16 with Maurice Béjart, 1953.© 2018 Artists Rights Society (ARS), New York / ADAGP, Paris,

Nicholas Schoffer utilizza, semplificandolo, il processo di proiezione luminosa di schermi varianti utilizzato da Moholy, e lo applica all'idea ereditata da Naum Gabo di 'vuoto attivo' e cioè di una costruzione "aerea trasparente e penetrabile". L'applicazione è sempre spettacolare, e avviene attraverso la proiezione e la messa in scena della macchina mobile. La tecnica proiettata è chiamata lumodinamismo, e viene presentata per la prima volta in una performance spettacolare alla stazione centrale di New York, nel 1957. Attraverso l'uso della cibernetica Schoffer cerca di attivare risorse esterne che rendano possibile la casualità nel formarsi delle combinazioni lumodinamiche, come nel caso delle gigantesche torri realizzate a Liegi, a Biot e a Saint Cloud. Tutto questo gigantismo ha naturalmente bisogno di un contributo della grande industria, che come la Philips, è interessata all'applicazione di alcune ricerche sviluppate da Schoffer, come il muro luminoso o il tele luminoscopio. Infine anche la ricerca teorica di Schoffer assume colorazioni di tipo metafisico, quando dichiara che l’arte deve permettere di raggiungere verità trascendentali. Il dio cibernetico è dunque un "dio atemporale e permanente, disponibile, agente e retroattivo, recettivo ed emittente, onnidirezionale e aleatorio". Esattamente come una delle sue gigantesche torri. Comunque la si metta, la concezione sinestetica di cui è impregnato il suo lavoro non può che essere ricondotta all'idea di opera totale di matrice wagneriana, vuoi per le implicazioni spettacolari e catastrofistiche, vuoi per le implicazioni metafisiche e sentimentali.

View of Nicolas Schöffer’s studio in the Villa des Arts, Paris.© 2018 Artists Rights Society (ARS), New York / ADAGP, Paris,

La logica continuazione delle ricerche di Schoffer porterà negli anni Settanta e Ottanta ai grandi spettacoli multimediali prodotti dalla rockstar americane e europee.  Le ricerche degli artisti e dei gruppi che fanno capo all'arte cinetica si muovono, negli anni cinquanta e sessanta tra i due estremi dell'interesse a sviluppare il rapporto tra luce spazio e ambiente, e l'interesse a enfatizzare l'idea di un oggetto come microspazio luminodinamico. Così, per citare il caso italiano, abbiamo da una parte gli ambienti luminosi di Lucio Fontana e di Gianni Colombo, dall'altra il tetracono e le sculpture articulée di Munari e le strutture numerate di Enzo Mari. Non è casuale che i protagonisti della seconda via, Mari e Munari, saranno tra i padri fondatori del design italiano, mentre i primi, Fontana e Colombo, saranno precursori di un modello più vicino agli interessi dell'arte. Così se da un lato il movimento correrà il rischio di produrre oggetti più simili a gadget che a opere d'arte, d'altra i fautori del gigantismo scenografico troveranno un'eco immediata nelle esposizioni fieristiche, in quello che allora, negli anni Sessanta, veniva chiamato eufemisticamente exhibition design. Una buona parte del movimento sembra interessarsi più ai rapporti con la scienza, in particolare con le premesse gestaltiche e cognitive che nei casi più radicali portano a una teorizzazione della scomparsa dell'autore a favore di un rapporto empatico e costruttivo dello spettatore. L'artista anonimo di un'opera anonima produce scienziati, psicologi e ghestaltisti, che portano l'opera verso un azzeramento dell'esperienza sensibile.

 Varrebbe la pena di aprire qui una breve parentesi su un consanguineo dell'arte cinetica, il minimalismo, apparentato anch’esso con il movimento costruttivista.  Il minimalismo sviluppa la parte 'concettuale' del costruttivismo razionalista, portando alle estreme conseguenze le sue premesse teoriche, contenute nella celebre frase di Robert Morris, esponente di primo piano del movimento, divenuta manifesto della poetica minimalista" Ciò che vedete non é altro che ciò che vedete". In questa frase é condensata l'idea di annullamento totale dell’esperienza estetica, di riduzione fenomenica dell’opera al nulla della pura percezione, priva di qualsiasi residuo di allegoresi, di valore simbolico e sentimentale. Il nulla è dunque l'esperienza che la poetica minimalista vuole dominare, nulla che reintroduce una qualità molto particolare di luce, che era andata completamente persa  nelle lumodinamiche esecuzioni di Schoffer e soci.

Si parla dell'aura, di quella particolare luminescenza che gli oggetti assumono quando diventano opere d'arte data per dispersa agli inizi del secolo in virtù dell’invenzione della fotografia.  Esiste un'opera che riassume in modo esemplare, a mio giudizio, questa duplice e paradossale condizione, del nulla auratico, ed è l'installazione realizzata nel 1965 da Robert Morris presso la Green Gallery di New York. Una serie di cubi con le facce a specchi collocati all'interno della galleria. Attraverso ciò che  Didi-Huberman chiama la "vo-luminosità", ovvero la duplice e contraddittoria condizione di un volume, una materia ben circoscritta nello spazio e una luminosità, una materia tutt'altro che circoscrivibile nello spazio, si verifica lo straniamento auratico. Così Didi-Huberman" Questa (la voluminosità) compare in modo notevole in Morris, che lavora sistematicamente a "confondere le configurazioni" d'oggetti che peraltro sono con tutta evidenza dei cubi o dei parallelepipedi." Ed ecco che l'aura compare dove scompare la geometria delle fonti, dove l'oggetto perde la sua compattezza fenomenologica, dove, nonostante l'annullamento dell'esperienza dello sguardo, l'arte riesce comunque ad agire attraverso l'ambiguità dei margini. E' comunque, non facciamoci illusioni, una raffinata operazione cognitiva, perfettamente controllata e controllabile, dai prevedibili riscontri scientifici: l'ambiguità della forma e il suo annullamento nell'impossibilità di compiere una scelta coerente con ciò che stiamo vedendo (esiste o non esiste il cubo di cristallo specchiante? esiste o non esiste ciò che stiamo vedendo?) è la premessa e il fondamento dell'idea cognitiva, di un nuovo modello di scienza, di impianto fenomenologico, che non esita a partire da premesse apparentemente a-razionali, come quelle che negano la possibilità di fondare l'esperienza su un dato obiettivo. Eppure eravamo partiti dall'affermazione di Morris che “ciò che vediamo non è altro che ciò che vediamo" Ma che cosa in realtà stiamo vedendo? Forse la palla da baseball che, ci ricorda Frank Stella, mentre gira vorticosamente verso il battitore può da questo, genio assoluto della visione, essere vista e controllata in ogni suo filo, come se si muovesse al rallentatore? Ritroviamo nella scuola californiana alcuni temi cari all'arte cinetica e alla fenomenologia, come lo sviluppo del rapporto dell'opera con l'ambiente, e quindi la perdita di corporeità dell'oggetto, come l'idea di partecipazione del corpo e dell'emotività dello spettatore, che attraverso il suo intervento modifica e altera lo statuto iniziale dell'opera, o come, infine, l'importanza confermata a certi aspetti della ricerca scientifica. Esiste un lato abbastanza essenziale nel lavoro di questo gruppo d'autori, ed è la necessità, attraverso il rapporto con la scienza o con l'antropologia, di rompere il meccanismo autoreferenziale, senza rinunciare a interrogarsi sulla specificità del sistema 'arte'. Così Hanna Arendt in un saggio premesso a un volumetto di Hermann Broch sul Kitsch:" Ciò che Broch intende per Kitsch...... non è affatto un fenomeno di degenerazione né un fenomeno che si riferisca all'arte autentica come la superstizione può riferirsi alla religiosità o come la pseudo-scientificità del moderno uomo massa può riferirsi alla scienza. Il kitsch è arte, e l'arte si trasforma inevitabilmente in kitsch non appena essa si stacca dal sistema di valori che la guida. La stessa art pour l'art che si è presentata sotto la veste di un così esclusivistico culto dell'arte è già kitsch" Ed ecco la necessità di interrogarsi sui confini, sui bordi dell'arte, sulla sua utilità nel mondo contemporaneo, per non rinunciare a un referente, senza riaffermare per forza la necessità dell'allegoria e della narratività. Non bisogna dimenticare, guardando il lavoro di questo gruppo di artisti americani, l'importanza che per loro assume la sapienza tecnica, sapienza che possiede almeno due bordi forti: quello gestaltico e fenomenologico e quello delle tecnologie. La prima considerazione che ci viene da fare è sulla particolare declinazione che in questo contesto viene fatta della nozione di forma, e di come questa nozione si intrecci con quella di spazio: la forma (Gestalt o Form) è dunque spazio in quanto somma della forma e del suo vuoto.

Robert Irwin, Acrylic Column, 1970, Installazione presso lo studio di Donald Judd

Robert Irwin, uno dei protagonisti di questa ricerca, ha messo il rapporto tra luce e spazio al centro dei propri interessi. Dichiara che l'oggetto che pone al centro dell'esperienza estetica non è rappresentabile perché ‘onnipervadente’. Ovvero il rapporto fenomenologicamente complesso, interattivo, avviene grazie alla luce con il luogo. Grazie all'intervento sapientemente 'costruttore' di Irwin la luce si traduce in spazio, per mezzo di un processo analogo a quello dei cubi specchianti di Morris. La colonna acrilica, un lavoro esposto a New York nel 1970 nello studio di Donald Judd, riprende in pieno l'esperienza riduzionista di Morris, con una variante fondamentale: al posto della specularità troviamo la trasparenza, al posto della riflessione la rifrazione. Lo spazio non si riflette più nell'oggetto, ma al contrario è l'oggetto che si annulla nello spazio, che grazie alla luce, lo attraversa interamente. Ritroveremo spesso questo tema, della trasparenza e dell'oggetto annullato dallo spazio, in altre installazioni di Irwin, come quella, nello stesso anno,  al museo d'arte moderna di New York, in cui, come avverrà più tardi nella villa di Panza di Biumo, l'elemento di trasparenza è un sottile velo tessuto che divide lo spazio orizzontalmente o verticalmente, creando un forte effetto di straniamento. Qualcosa, che può richiamare l'effetto della camera anecoica per il senso dell’udito. Un effetto di annullamento, appunto.

Robert Irwin e James Turell mentre dimostrano il funzionamento di una camera anecoica, 1970

E' con James Turell che Irwin lavora alla realizzazione di una camera anecoica, uno spazio dal silenzio perfetto, che, senza scomodare Cage, viene realizzata nell'ambito di un progetto Art&Tecnology per l'expo di Osaka nel 1970.  Il concetto su cui i due artisti lavorano è quello di Ganzfeld, di campo totale. Campo percettivo totale. L'idea è sempre quella: l'annullamento completo dell'esperienza estetica. Ed è questo un tema tipico di quegli anni, in cui l'occidente, paradossalmente proprio grazie al lavoro scientifico, si sta riavvicinando all'oriente.

Questa nozione di vuoto equivale alla nozione di annullamento espressa dal buddismo, e in particolare dal buddismo zen. La pienezza del nulla, appunto. La luce è la luce del Satori. Sul crinale di queste esperienze si colloca anche il lavoro di Maria Nordman, che costruisce ambienti panici basati sull'imperfetta assenza di luce. Sperimentando l'ambiente da lei realizzato alla villa Panza di Biumo chi resiste alla tentazione di uscire di corsa dal luogo totalmente buio in cui si trova immerso all’inizio, vive la esperienza delle possibili modificazioni di un volume architettonico, connesso e sconnesso dall'esilissimo filo di luce che ne penetra l'interno da una fessura laterale. Lavorando su possibili slittamenti percettivi, rendendo imperfetto il buio, la Nordmann agisce efficacemente sulla psiche dell'osservatore modificando la sua esperienza dello spazio.

Maria Nordman, estrno di 165N Central, Los Angeles, Installazione, Museum of Contemporary Art, Los Angeles 1983

Esistono alcuni lavori realizzati o in fase di realizzazione che evidenziano in modo molto forte l'interesse di James Turell per le tematiche legate al rapporto tra la luce e il tempo. Una delle prime esperienze di Turrell con la luce consisteva nella proiezione di un cubo virtuale utilizzando le proprietà di una luce di intensità particolarmente forte. Usando un proiettore allo xenon, riusciva a creare l'illusione iconica di un cubo luminoso, ovvero di un spazio tridimensionale composto interamente di luce. Vo-luminoso appunto. E ancora una volta è proprio in questa ambigua condizione di delimitazione che si applica la nozione di ambiente. L'oggetto non è più tale perché presenta reali caratteristiche di tridimensionalità e non è neppure immagine perché il suo aspetto fenomenico ne impedisce una fruizione superficiale. L'ambiente si connota dunque come uno spazio di confine, collocato tra l'oggetto e la sua immagine. Un altro dei lavori presenti alla villa Bitumo, "Lunette", è ancora più eloquente sul rapporto con il tempo, inteso sia come tempo metereologico che come tempo cronologico. In uno stretto corridoio la parete finale è sormontata a circa quattro metri dal suolo da un'apertura semicircolare, che inquadra una porzione di cielo esterno. La lunetta non ha serramenti o vetri che la separano dallo spettatore. La cornice superiore del corridoio è illuminata da un neon che separa la parte alta dalla parte bassa, e diviene visibile solo quando la notte è scesa. Lo spazio è compreso nella sua interezza solo a condizione di poter intrecciare la doppia valenza dell'immagine incorniciata dalla lunetta con il volume individuato dal neon.

James Turell, Lunette, Giuseppe Panza di Biumo, 1974

Per concludere un lavoro di Bruce Nauman, intitolato "Il centro dell'universo" è assimilato, per dichiarata intenzione dell'autore, a un Mandala. Nauman è un autore che possiamo solo impropriamente associare a quest'area di ricerca, poiché il suo lavoro e assai più articolato e concettuale. Alcuni suoi lavori sono però assimilabili a un interesse di tipo fenomenologico. E' il caso di alcune opere, come il muro di materassi fonoassorbenti, strutturati con lo stesso materiale che viene utilizzato nelle celle dei manicomi. O come un lungo, sottile e impraticabile corridoio illuminato da una verde luce di neon. Il “Centro dell’universo” è in realtà una scultura, così viene chiamata, che si identifica con una realtà oggettuale, fortemente architettonica. Il tutto è aggravato da un titolo che metaforizzando il senso reintroduce ancora una volta il problema del referente e della sua autonomia.  La struttura, in cemento armato è orientata secondo i quattro punti cardinali. Al centro é sormontata da un analogo braccio aperto verso il cielo e simmetricamente a questo, verso il basso sprofonda un altro pezzo di questa struttura, coperto da una griglia di ferro. L'insieme del lavoro é collocato dentro un cerchio di terra smossa. Per percepire l’opera è necessario collocarsi al centro delle sei braccia, è là, in quella posizione strategica, rifondare la propria dimensione proiettiva, articolata e critica verso i concetti di massa, gravità spazio, tempo, e perché no, di vita e di morte.

Bruce Naumann, Green Light Corridor, Panza di Biumo, 1970-71