La casa che abito

Maurizio Barberis 

Negli anni Settanta la Biennale di Venezia ospitò una celebre esposizione sul tema delle Machine Célibataire, ‘the bachelor machines’, una mostra dedicata a tutte quelle invenzioni, più letterarie che reali, che presentavano un grado di utilità voluttuosamente nullo, e un grado  di voluttà scandalosamente entropico, non producendo alcunché, se non un’entropia del piacere. Tali macchine si potevano considerare tout court imparentate con l’opera d’arte moderna. Il tema prendeva spunto dall’analisi della celebre opera duchampiana, Le Grand Verre, ovvero ‘La Marièe mise à nu par son célibataires, même’, conservata al Philadelphia Art Museum.

Nell’interpretazione di Maurizio Calvesi il Grand Verre viene letto come una sintesi dell’opera alchemica, una summa dell’arte spagirica, il cui simbolismo può essere ridotto a tre elementi essenziali: la parte inferiore del vetro, dove sono collocati gli sposi, i celibi, i testimoni oculari, nel numero di dodici, corrisponde alla terra (o al fuoco) incubatore dello spirito mercuriale,  la parte superiore del vetro, dove è collocata la sposa, la Marièe (Maria o Vergine), che  rappresenta il cielo, il luogo dell’assunzione, della volatilizzazione-sublimazione mercuriale, il luogo dello spirito-mercurio che si oppone al corpo, la linea di orizzonte infine, che divide il cielo e la terra, il luogo essenziale alla trasmutazione, poiché condivide la natura di entrambe senza essere né l’una né l’altra. La Maison Celibataire rappresenta quindi l’inconscio tentativo di dare un luogo a questa linea d’orizzonte, un luogo che Roberto Calasso ha definito come un chi, e non come un dove o una cosa. Un tentativo di offrire una rappresentazione del topos più oscuro e incerto dell’animo  umano, quello che segna il confine tra la terra e il cielo. Ogni ‘maison célibataire’, che si rispetti condivide dunque questa struttura erotico-iniziatica con l’opera di Duchamp, e quindi questo modello ieratico potrebbe essere individuato anche nella mise-en-scène della casa del silenzio imperfetto.

La casa viene intesa quindi come una particolare declinazione del modo di concepire gli interni domestici, vissuti come un’opera d’arte totale, una sorta di sinestesia proiettata verso l’assoluto, verso l’annullamento del tempo, verso un’idea di immortalità che si oppone in ogni sua manifestazione all’idea funzionale, quella regolata dalla relatività delle cose, quella, per intenderci, racchiusa nello spazio che va dal frigorifero al w.c. La casa progettata come un mondo individuale costruito ‘su misura’, un mondo immaginario di cui solo l’autore ha la chiave d’ingresso, un universo che si oppone al mondo reale come un’isola dove le vite si consumano. La casa è un contenitore di memorie, un universo di cose, di frammenti di esperienze, che trasforma l’uomo comune in un raffinato collezionista, e, perché no, in un potenziale artista concettuale. L’occhio del collezionista/artista, scompone e ricompone continuamente le forme del suo passato per dare vita e immagine ad un sogno di appartenenza, e il mondo, questo spazio freddo e ostile, diviene così familiare e amico, addomesticato attraverso l’accumulo selettivo di oggetti, segni, che ricomposti in buon ordine nella casa, danno significato al suo essere nel mondo.

Attraverso questo puzzle psichico il collezionista salva e conserva il ricordo del cosmo, per  congelarlo, attraverso le forme istituzionali del museo, o meglio ancora della casa museo  (D’Annunzio vs Joseph Cornell?). Trattenere le cose per fermare la vita che è trascorsa attraverso di esse è un’esperienza che esprime, in un desiderio di immortalità, la paura della morte. L’operare del collezionista è quindi simile e vicino, strettamente imparentato, a quello del fotografo immortalato da Roland Barthes nella Camera Chiara, la cui opera è tesa, attraverso l’atto estetico, a congelare un momento del passato donandogli una sorta di virtuale immortalità. Potremmo forse dire che, in fondo, la fotografia è stata inventata solo a questo scopo, la conservazione e il ricordo, donandole una sorta di universale immortalità. Due le principali azioni del collezionare, l’accumulo e la selezione, condizionate vuoi dalla passione vuoi dalla necessità razionale di dare ordine a un universo confuso. La casa è il luogo di elezione dove si svolgono contemporaneamente le due azioni, quella dell’Io che si ritira e si protegge, (accumulo) e quella del Sé che mette inscena la dialettica tra pubblico-privato (selezione). Le due  figure, o almeno i risultati del loro agire, si intrecciano in un nodo indissolubile nel desiderio di sconfiggere la precarietà della vita. Ma la casa è sempre la ‘sua’ casa, e le cose oggetto della sua ansia collezionistica son pur sempre le ‘sue’ cose. La collezione riflette dunque in maniera esclusiva un punto di vista, il desiderio di rifondare il mondo, di rendere chiara l’appartenenza ad esso. Entro certi limiti, quelli delle mura domestiche, le cose segnano un passato, una storia, un ricordo assolutamente personale. L’opera del collezionista, come autore e creatore di mondi, trova rifugio in un luogo privilegiato, che ha bisogno della consapevolezza e del consenso degli altri, utilizzando essenzialmente categorie estetiche che superano di gran lunga le potenziali motivazioni economiche: “...ce que j’aime, et cela passionément, c’est de donner à un objet sans prix un valeur...”. (Brassaï.)

Non è un caso che il ‘marche au puces’ diventi per i surrealisti un archetipo famigliare, che può scatenare l’immaginario onirico attraverso una catena referenziale infinita. Brassaï, collezionista compulsivo, adepto delle ‘puces’, trasferisce nell’immagine fotografica la sua ansia accumulativa, operando nella sequenza delle immagini un processo analogo al collezionare: “...ce que j’ambitionne ce de faire quelque chose de neuf et de saisissant avec le banal e le con- venu. Je ne cherche pas les sujets exceptionnels, je l’evite...”. Il gioco dell’assemblaggio collezionistico diventa così ‘le jeu savant’ che porta alla scoperta della ‘poesia naturale’, della creatività ‘du hasard’. Il valore poetico dà un senso all’anima predatrice del collezionista, sublimando così la compulsività attraverso i significati letterari,  filosofici o estetici degli oggetti collezionati. A tale proposito il museo di Nantes dedicò qualche anno fa un’ampia retrospettiva all’opera del grande fotografo ‘surrealista’. Il titolo dell’esposizione deriva da un lavoro lui pubblicato sulla rivista ‘Le Minotaure’, “la maison que j’habite, ma vie, ce que je vis...”.  La ‘casa che abito’ era in realtà un’espressione che indicava un accumulo di immagini, di fotografie che immortalavano un universo composito, frammentato, fatto di segni, di cose, di elementi naturali, cristalli, frammenti di legno, grafiti murali, che furono l’oggetto di un lungo lavoro di ricerca e catalogazione dell’autore, una collezione che metteva assieme le esperienze che  compongono l’universo magico e onirico nel quale si identificava la ricerca del poeta-fotografo Brassaï. Un desiderio di immortalità, appunto.

Il Musee des Beaux Arts di Nantes, organizzò nel 1981 una manifestazione dedicata alla poesia nella città, un omaggio a Camille Bryen, poeta e pittore surrealista, cui partecipò Brassaï per ricordare la sua partecipazione all’illustrazione della “Antologie de la poesie naturelle”, un volume pubblicato nel 1949 da Bryen, che raccoglie frammenti di estetica urbana spontanea, non motivata da un ’intenzione, bensì da un’’azione, un actionnisme picturale ante litteram, utile a delineare una nuova sensibilità  figurale, basata sull’assemblaggio stocastico di elementi raccattati per caso nei luoghi più estremi della città. Pura spazzatura visiva, trasformata dall’occhio del poeta e del fotografo in pura ‘poesia visiva’, una sorta di archetipica e primordiale poesia a-testuale.

La città diviene così una parte di un museo virtuale, che si manifesta attraverso la vita fermentata e levitata delle persone che la abitano, come un vino o un dolce e mero e cangiante, impermanente e votato alla morte, e perciò stesso denso di una vis poetica anonima e straziante. L’amicizia di Brassaï con Picasso produsse poi la serie delle Transmutation, un’opera quasi collettiva. Picasso pasticcia una foto di Brassai, trovata per caso nel suo studio, e da questo parte l’operazione artistica dello stesso fotografo. Una serie di ‘femme transmuté’, la Femme-Friut piuttosto che l’Odalisque Transmutation’, rafigurano un’ossessione scompositiva che dilaga nell’immagine del nudo femminile, modificandone il senso e la forma, l’erotismo implicito, come in ‘Ofrande’, attraverso la sovrapposizione di un gesto pittorico elementare e infantile. Un’operazione che potrebbe ricordare certi automatismi grafici, se non fosse che dietro al ‘Pastiche’ ritroviamo la mano e la poesia dello stesso Picasso. La spontaneità e l’automatismo di Brassai arretrano di fronte alla maestà autoriale del Maestro. Ma la Città, il suo Spirito inteso come manifestazione vivente e vitale, un corpo unico che assorbe nella sua superficie assoluta la vita, la sofferenza e la disperazione dei singoli individui morenti, rimane l’orizzonte poetico privilegiato di Brassai fotografo e collezionista virtuale. La città come corpo assoluto di una forma spirituale che si traduce nell’ossessiva ricerca dei segni spontanei lasciati sui muri urbani. Les ‘Grafitis’, che appaiono in bell’ordine sul numero 3-4 de le ‘Minotaure’, a illustrazione di un articolo intitolato ‘ selon la suggestion de Paul Eluard “Du Mur des cavernes au mur d’usine”, per rivelare al mondo ‘cet art bâtard des rues mal fammés’. Un racconto che si dipana lungo l’arco di un venticinquennio, ché tanto dura la sua passione amorosa per le mura più sordide della città degli ultimi. Il segno graffiato sulle pareti delle case rimanda immediatamente, sin dal titolo di Brassaï, all’arte spontanea dell’uomo primordiale, al graffito amigdalico operato da quel rozzo strumento di pietra che non segna ma scava con violenza la superficie dell’immaginario poetico più ancestrale e spontaneo, apparentandosi perciò tanto alla pura espressione di un inconscio ancora libero dalle manipolazioni dell’Io civilizzato, quanto al segno spontaneo e inutile, privo cioè di quell’utilità auto-performativa dell’arte contemporanea, bensì destinato all’oblio e alla distruzione da un Tempo ostile all’uomo. Lo stesso Tempo, Cronos, che divorò la poesia e la mente di un Artaud o di un Michaux.

Accumulatore e selezionatore compulsivo. Le due figure, o almeno i risultati del loro agire, si intrecciano in un nodo indissolubile nel desiderio di scofiggere la precarietà della vita. Il valore poetico dà un senso all’anima predatrice del collezionista, sublimandone così la compulsività attraverso i significati letterari degli oggetti collezionati. Se la passione collezionistica è al suo inizio solo una forma derivata da uno stato psichico alterato, una sorta di escrescenza morale dell’idea di possesso, determinata dall’imperativo categorico dell’accumulo compulsivo, dall’ebrezza delle esperienze generate dal desiderio di completare il mondo, solo in un secondo tempo si produce un nuovo universo, grazie alla sublimazione letteraria operata dalla mise en scene della collezione. Se i valori delle cose e delle esperienze vengono catalogati e registrati e così trasfigurati sulla base di certe determinate categorie estetiche, fattori formali piuttosto che qualità letterarie, il risultato è sempre e inevitabilmente diretto verso quella poesia naturale, quell’estetica dell’azzardo e del caso inevitabilmente ad ‘alto indice estetico’. La casa-museo e il suo immaginario poetico: ovvero il collezionismo come forma d’arte, l’arte come forma del collezionismo. Partendo dall’esperienza fatta da Picasso e Brassai, che consisteva nell’accumulo casuale di emozioni, sensazioni, grafiti periferici e objet trouvet, operazione che costruisce di fatto una sorta di museo immaginario fatto di collezioni virtuali, emozioni casualmente assemblate secondo la legge dell’hasard, si può postulare l’idea che una delle ragioni alla base della motivazione spirituale di un autore sia proprio l’ansia collezionistica (Joseph Cornell).

Il desiderio di immortalità che muove lo spirito dell’artista sembra poggiare sulle stesse motivazioni del collezionista, accumulare e selezionare, ovvero sconfiggere il tempo. Il collezionista-artista vuole salvare e conservare il ricordo di sé attraverso il ricordo del mondo, per congelarlo, attraverso l’espressione di un bisogno di ricondurre le forme istituzionali del museo a quelle di un luogo familiare e domestico, Memoria vs ricordo. L’opera del collezionista-artista, come autore e creatore di universi, trova rifugio in un luogo privilegiato, virtuale e al medesimo tempo reale, che ha bisogno della consapevolezza del mondo, della sua memoria, per giustificare la compulsività del gesto, del suo operare. Dal ‘marche au puche’ al ‘marche au beaux art’. Come lo scultore muove da un blocco d’argilla compatto e via via seleziona le strade possibili per il compimento dell’opera, così il collezionista d’arte partendo dall’insieme di fattori estetici, di esperienze e di oggetti che ne compongono l’orizzonte, definisce il proprio universo domestico e rituale. Le jeu savant: il collezionismo come gesto poetico, come forma d’arte tout-court. Il gioco dell’assemblaggio collezionistico diventa ‘le jeu savant’ che porta alla scoperta della ‘poesia naturale’, della creatività ‘du hasard’. E’ quindi il valore immateriale, poetico, al di là dell’ambizione personale di un ego deciso a dare forma a un mondo su misura, di un collezionista-artista, che cristallizza il mondo degli oggetti in una sorta di museo privato, luogo della memoria personale dell’autore. Dalla scatola alla stanza, dalla stanza alla superficie assoluta del quadro. Un collezionismo compulsivo in grado di proporre un universo che enfatizza il tema dell’accumulo selettivo, che raccoglie in modo un po’ ironico e surreale una collezione di oggetti pensati  e testimoniati da architetti, designer, artisti, letterati per una casa museo. Un modus operandi attraverso il collezionismo, la sua quota di rilevanza artistica e letteraria che trova ospitalità nella memoria e nella aspirazione di trasformare la casa in un luogo d’arte. La casa diviene quindi un luogo di sosta, dove l’immaginario collezionistico produce nuove idee e nuove suggestioni, che non possono fare a meno di un pubblico ironico, curioso, dandy e, naturalmente, collezionista.