Rembrandtiana

by Amor Auri Sib-Ibiz

In un lavoro su Rembrandt e il suo ambiente, Svetlana Alpers cerca, in modo assai convincente, di ribaltare l'idea comune che la letteratura artistica si era fatta in questi ultimi anni della enorme quantità di dipinti attribuiti al maestro olandese, che solo di recente sono stati giudicati 'inautentici', falsi o di bottega. La Alpers 'sottolinea tra l'altro, l'importanza del luogo fisico dove Rembrandt e i suoi assistenti lavoravano. Cosa che lo allontana da autori come Rubens, disponibile a impiantare il proprio studio dove la fortuna lo portava. Per Rembrandt lo studio è invece lo spazio dentro il quale viene rappresentata la scena della vita attraverso la pittura. Georg Simmel, nel suo fondamentale saggio su Rembrandt, ci ricorda la differenza tra la maniera italiana, improntata al dominio di uno stile che esprime il valore universale della forma, e la maniera tedesca, di cui Rembrandt é campione, che riconosce l'individualità, lo scorrere del flusso vitale, nelle cose che sono oggetto della sua pittura.  L'uso stesso della parola Forma risulta improprio nel caso di Rembrandt, perché tale nozione individua un paradigma universale, cristallizzando in modo definitivo e immutabile un canone, che della Forma é ragione prima e ultima.

Rembrandt, Autoritratto, 1628 ca, Amsterdam, Rijksmuseum, Dettaglio

Rembrandt dipingeva immagini con una loro specifica e marcata caratteristica individuale, ritraeva soggetti colti nell'istante del divenire della vita. Per la prima volta, nella storia della pittura, le immagini si distaccano dallo stile dominante. E' la verità, in senso quasi fenomenologico, che Rembrandt cerca con la sua pittura, e nel far questo si contrappone alle verità astratte praticate dalla maniera italiana pochè  nella sua maniera é fondamentale la messa in scena del Sé del soggetto e, di riflesso, dell’autore. L'anomala e continua pratica dell'autoritratto, presente in modo ossessivo nel repertorio rembrandtiano, viene indicata dalla Alpers come una possibile estensione alla propria persona, alle proprie caratteristiche fisiognomiche, della messa in scena teatrale dei sentimenti. Come una concreta pratica della coscienza di Sé: " Quanto a Rembrandt, un altro filo lo lega al teatro, o per lo meno alla recitazione. Il periodo in cui frequentò la scuola latina di Leida, dall'età di nove e fino a tredici anni, é stato a lungo scandagliato con l'intento di trovare le prove dell'erudizione dell'artista…ma c'é un'altra eventualità: é possibile infatti che mentre frequentava la scuola latina egli sia venuto in contatto per prima cosa con il teatro, o più precisamente con la recitazione. In quel tempo nei paesi bassi, come dovunque in Europa, uno dei metodi consueti per insegnare agli allievi una perfetta pronuntiatio retorica consisteva nella messa in scena di commedie latine. Naturalmente con il termine "pronuntiatio" si intendeva allora molto più di quanto non si insegni al giorno d'oggi in una classe di lingua. La pronuncia comprendeva l'actio; si trattava di manifestare l'eloquenza non solo con la voce, ma anche con i gesti, comuni all'oratore e all'attore.Un esercizio specifico in uso nelle scuole e basato sui Progymnasmata di Aftonio veniva detto prosopopoeia o "personificazione", e consisteva essenzalmente nella composizione di monologhi drammatici per personaggi celebri in occasioni particolari. Una partecipazione di Rembrandt alle commedie nella scuola latina costituirebbe il modello di quella recitazione come metodo di apprendimento e strumento didattico, in uso nello studio di Hoogstraten, secondo l'esempio di Rembrandt." (Svetlana Alpers, L'officina di Rembrandt, Torino 1990,)

Rembrandt, Autoritratto, 1629 ca, Monaco, Alte Pinakothek, dettaglio

La Alpers sostiene che tutta la produzione di Rembrandt é caratterizzata da questo modus operandi, dalla messa in scena delle passioni che il teatro utilizza, opus drammaticum, per rendere attivi e reali i sentimenti. Simmel sostiene invece che il lavoro di Rembrandt nega la messa in scena teatrale, poiché presupposto di questa è una terza figura, l'osservatore/spettatore, apparentemente estraneo alla scena stessa. Nel lavoro di Rembrandt predomina un istinto vitale che assimila l'osservatore all'osservato. Esattamente come il theatrum memoriae di Giulio Camillo, dove l'oggetto osservato diviene, attraverso un complesso processo di identificazione, parte integrante della psiche di colui che guarda, al punto da sembrarne quasi un'estroflessione, un ritratto. La tecnica usata da Rembrandt, la Alpers ne parla nelle pagine dedicate all'autoritratto, consisteva nel simulare un sentimento, una passione, interpretando quel particolare momento psichico che corrisponde a ciò che viene raffigurato nel quadro. Sembra quasi una tecnica di derivazione stoica, come la ‘praemeditatio malorum’. Tecnica usata non solo per rappresentare realisticamente l'immedesimarsi espressivo del pittore nella descrizione dei personaggi, storici o biblici, che man mano dipinge, bensì per restituire, con precisione assiomatica il principio di identificazione tra essere e sentirsi-essere.

Rembrandt, La coppia Felice ( il figlio prodigo nella taverna), 1635 ca, Dresda, Gemaldegalerie, dettaglio

Nella parte finale del suo saggio, la Alpers  annulla l'effetto scandalistico che é gravato in questi anni attorno alla vicenda dell'autenticità dei lavori attribuiti a Rembrandt, grazie appunto all'analisi degli autoritratti e della loro interpretazione.Da Jan Lievens a sir Josuha Reynolds, da Courbet sino a Picasso, é audace e continuo il gioco della copia dal vero,  il 'vero' rappresentato dall'autoritratto di Rembrandt.  Così ci possiamo chiedere che cosa significa la 'copia' di un'autoritratto, che cosa significa la grande quantità di 'falsi' autoritratti di Rembrandt, se non il ripetuto tentativo di impossessarsi di un'immagine e di un sentimento, di essere Rembrandt stesso. Tra le pratiche dell'askesis troviamo i ghymnasia, che formano un completamento della meditatio. Attraverso l'allenamento a una situazione concretamente vissuta, ci si pone l'obbiettivo della purificazone rituale dell'io (privazioni fisiche, astinenze sessuali etc...).  Pratiche analoghe potevano essere compiute dal pittore, attraverso l'immedesimazione passionale degli autoritratti, alla loro messa in scena nello studio, sino al raggiungimento della compiutezza dell'opera, che, per essere portata a buon termine, richiedeva un tempo molto lungo di elaborazione. Come nel caso del ritratto di Jan Six. Rembrandt é tanto concentrato sul volto e sulla possibilità di 'catturare' il segreto della sua anima, per portarlo alla luce, che si distrae dai dettagli, per i suoi contemporanei invece di fondamentale importanza. Rembrandt dipinge il segreto della passione dell'amico non curandosi dei dettagli pittorici che compongono le vesti o lo sfondo:" …Ciò che qui conta non é il fatto indiscusso che l'uomo é un'individualità che non si può comporre dalla somma delle sue proprietà indicabili, bensì che la conoscenza di questa individualità avviene mediante un senso peculiare che non coincide affatto con i sensi adibiti alla conoscenza di proprietà descrivibili. Rembrandt deve aver posseduto questo senso a un grado straordinario di perfezione…"(G.Simmel, Rembrandt, Milano 1991)

Foucault ci suggerisce come tra i due estremi dell' esercizio pensato e dell'esercizio reale delle tecniche stoiche si possano collocare tutta una serie di sfumature intermedie e di possibili rappresentazioni di queste. Ritroviamo nelle due metafore di Epitteto, quella del guardiano notturno, attento al flusso dei nostri pensieri, e quella del cambiavalute, attento all'autenticità del danaro e incaricato di trasformare la moneta, un primo esempio di queste sfumature intermedie: " La metafora del cambiavalute la ritroviamo, identica, sia presso gli stoici che nella letteratura cristiana antica: ma i significati che le vengono attribuiti sono nei due casi assai diversi. Quando Epitteto dice che occorre essere come dei cambiavalute, vuole dire che, non appena un'idea si presenta alla mente, bisogna pensare alle regole da applicare per valutarla. Per Giovanni Cassiano essere un cambiavalute significa invece cercare di decifrare se, alla radice delle nostre rappresentazioni, non ci siano per caso la concupiscenza e il desiderio, se cioè i nostri innocenti pensieri non abbiano origini malvage: se insomma sotto i pensieri non ci sia, forse nascosto, qualcosa che corrompe la moneta del nostro pensiero."( M.Foucault), E per Rembrandt invece, che cosa possono significare le metafore del guardiano notturno e del cambiavalute? Ritroviamo nell'opera pittorica del maestro olandese i due motivi, che ci riconducono direttamente alle metafore indicate da Foucault. E cioé il più celebre dei suoi dipinti, la Ronda di Notte, e uno dei meno noti, Il Cambiavalute, appunto,  opera che appartiene alla sua produzione giovanile (1627). Vale la pena di soffermarsi su quest'ultimo quadro, che Jakob Rosemberg, a causa dell'insolito modo con cui Rembrandt tratta la luce, paragona a dipinti di caravaggeschi come Gerard van Honthorst (Gherardo delle Notti).

Rembrandt, Il Cambiavalute, 1627 ca, Berlino, Staatliche Museen, Gemaldegalerie, dettaglio

Ciò che colpisce il Rosemberg é l'insolita qualità della luce, che sembra immergere in una materia magica lo spettatore.  Con la pittura di Gherado delle Notti il quadro di Rembrandt ha in comune la citazione diretta della fonte di luce, collocata al centro di una larga macchia scura. La luce forma, assieme alle carte del cambiavalute, un innaturale cerchio al cui centro é collocato l'uomo, assorto in un'espressione dolorosa e concentrata, come di chi stia per iniziare un'impresa particolarmente faticosa, e già si dà allo sconforto e allo slancio assieme. L'uomo osserva, raccolto, una moneta che tiene tra le mani.

E' difficile capire se il dipinto rappresenti una scena di intensa religiosità, o, al contrario, sia solo testimonianza dell'avidità del tipo, e di conseguenza del pittore, del suo rapporto particolare con il danaro. Derivazioni mennonite, secondo Rosemberg, potrebbero essere individuate in talune caratteristiche del suo lavoro, in particolare nella fascinazione che sembra esercitare su di lui, sul suo carattere solitario e appartato, lo stile di vita sobrio ed esemplare dei religiosi mennoniti, assieme alla propensione verso un credo meno dogmatico, senza ritualità e costrizioni teurgiche, che sembra ben disporre Rembrandt verso la setta di Menno Simons.

Rembrandt, Autoritratto con Tarabuso, 1639 ca, Dresda, Gemaldegalerie, dettaglio

La tendenza del genio rembrandtiano sembra voler seguire una via individuale, piuttosto che aderire a costruzioni teologiche prestabilite:"…Se la religiosità soggettiva si realizzasse in forma assolutamente pura (il che non accadrà mai, così come non esiste una religione meramente oggettiva, poiché ciascuna di queste forme si manifesta sempre in una certa mescolanza con le altre), consisterebbe nel processo della vita stessa, nel modo in cui l'uomo religioso vive in ogni momento, e non invece in contenuti quali che siano, nella fede in qualsivoglia realtà..." (G.Simmel, op.cit.)

Possiamo indicare qui i due modi essenziali della messa in scena del sé: un primo dialogico, che presuppone la presenza dell'altro, un interlocutore esterno, pubblico o spettatore, la cui presenza risulti determinante per il significato dell'opera. Il secondo di tipo ontologico, che implica la possibilità di una fondazione senza rappresentazione, lo svelamento della propria condizione originaria, così come veniva indicato dalla gnosi, attraverso una strategia del silenzio e dell'isolamento.  Nella lettura di Simmel la pittura di Rembrandt viene ricondotta all'ascolto del Sé, alla ricostruzione dell'animum, che utilizza la memoria come messa in scena per una rappresentazione che non chiede pubblico. E' da questa tradizione iniziata dal manicheismo che scaturisce la forma della pietas religiosa, che avrà un'importanza fondamentale per il buddhismo. Simmel nega viceversa qualsiasi rapporto tra tradizione monacale e la concretezza religiosa dell'opera rembrandtiana.

Rembrandt, Autoritratto con le mani sui fianchi, 1652 ca, Vienna, Kunsthistoriche Museum, dettaglio

Carl Neuman, studioso dell'opera di Rembrandt, mette in relazione con l'opera del maestro olandese il pensiero Jacob Boehme, contemporaneo di Rembrandt, la cui influenza sul mondo culturale tedesco, e in particolare sui filosofi dell'idealismo e sul romanticismo, fu molto forte. Figura complessa, Boehme non può essere certo definito un teologo ortodosso. Il suo interesse per l'alchimia, l'approccio tendenzialmente manicheo al problema della presenza del bene e del male nel mondo, l'idea quasi panteistica di una natura dominata dallo spirito divino, gli valsero la fama di pensatore oscuro e eterodosso.  Neuman mette in rilievo le possibili affinità con il dualismo di matrice boehmiana, basato sulla lotta dei due principi della luce e delle tenebre,  nel modo con cui Rembrandt utilizza il contrasto chiaroscurale. Nel 'Cambiavalute', per esempio. Le relazioni fortemente drammatizzate con cui viene rappresentato il chiaroscuro, la luce che nel dipinto dà forma a un cerchio. Cerchio che include gli strumenti di lavoro dell'uomo, e pone al centro del quadro l' operazione del cambio. Ed ecco apparire l'iconostasi di una moneta d'oro, danarius,  inteso come metafora della vita spirituale.  Jung aveva analizzato i miti dell' ascesa e della discesa, collegandoli strettamente al 'quaternarius ' della materia, i quattro elementi che  indicano il movimento verso il basso, la discesa, contrapposti al danarius , il numero dieci, meta dell'opus spagirico e simbolo dell'ascesa, della volatilizzazione dello spirito. Il cerchio esclude dalla scena, dal teatro dell' opera di trasformazione, tutto ciò che ne é estraneo, dividendo in due campi netti il dipinto, escludendo la zona d'ombra, che coerentemente con il dualismo boehmiano, rappresenta la forza oscura del male. Anche nel cerchio mandalico, le potenze oscure e negative che operano sull'animum sono tenute lontane dal teatro della trasformazione. Grazie alla ghirlanda di fuoco, che costituisce il primo cerchio del diagramma, i terribili demoni dell'inferno tibetano sono tenuti lontani dal centro dell'operazione spagirica.

Rembrandt, Autoritratto con tavolozza e pennelli, 1665 ca, Londra, Kenwood House, dettaglio

Rembrandt é lacerato dal conflitto tra una vocazione all'accumulazione e una tendenza alla dissipazione, dal desiderio mondano e dall' intimo desiderio di una faustiana comunione con il sé.  Pressato tra questi due estremi, compie una parabola spirituale che lo conduce verso la presentificazione dell'essere, piuttosto che verso l'ascesi. Nel qui e nell'ora, nel radicarsi nella materia, materia pittorica, anima del mondo, si realizza quell'attitudine estetica che riflette la sua individualità, il predominio della spiritualità e del soggetto fenomenicamente attento.  Si realizza solo così l'annullamento dell'essere nel mondo e il trionfo della pietas religiosa. Attraverso l'uso sapiente della luce, che coerentemente svolge questa funzione di guida, di apertura e di conoscenza, l'artista svela l'incanto segreto del suo spirito.  Come la luce é presente in ogni istante della nostra confusa relazione col mondo, allo stesso modo ogni frazione del tempo della nostra vita ne risulta illuminato. Consapevolezza e presenza, nella grandezza di ogni frammento, di tutti gli istanti passati e futuri dell'universo: "…Perfino le immagini del Buddha, con il loro a-cosmismo, il loro rifiuto appassionatamente spassionato del mondo in generale hanno proprio per questo un rapporto molto forte, sia pur negativo, con una concezione più profonda di questo mondo, e possono così facilmente apparire, in senso psicologico, "inanimate", mentre la centralizzazione rembrandtiana di tutti gli interessi dell'anima non consente tale rapporto né nell'oggetto né nel modo della interpretazione… "(Simmel op cit.)

Rembrandt, Autoritratto con le mani giunte, 1629 ca, Londra, National Gallery , dettaglio

L'imago mundi si concretizza nella manifestazione di una dinamica interna alla pittura, nella sintesi dell'espressione sentimentale, nella  piena e consapevole manifestazione delle emozioni, nella pietas  dell'artista. In questo senso l'opera rembrandtiana si allontana dall'orizzonte futuro dell'arte occidentale, dalla conquista di un'autonomia, possibile solo a condizione di accettare la funzione etica e analitica dell'arte. Il distacco che la via orientale al sé comporta, distacco dal mondo e dal suo carattere di illusione, é disatteso da una partecipazione fisica ed emotiva alle manifestazioni dell'essere, da una commozione che dà, laicamente, il senso profondo di una partecipazione religiosa alla vita dello spirito. Più ancora che con le vite del Buddha questo modo di operare andrebbe confrontato con la pittura Iki, o ancor meglio con la tradizione cinese dei pittori-letterati . Qui infatti nasce l'attenzione per il contrasto tra apparenza e rappresentazione, tra essere e apparire. Apparenza e rappresentazione coincidono nella forma della pittura, dove apparenza è tutto ciò che si traduce nell'immediato dato dei sensi, un'istante prima di divenire elemento di una possibile coscienza critica. L' apparenza mantiene un carattere fuggevole, impermanente, al contrario di ciò che chiamiamo sostanza, conoscenza specifica, tecné organizzata. Tecné, pensiero ontologicamente fondato, sostanza obiettiva delle cose, si oppongono alla rappresentazione come apparenza. La rappresentazione ci restituisce l'immagine nell'attimo della sua trasformazione, nel suo divenire da apparenza, sostanza. L'apparenza é dunque qualcosa che deve essere superato, trasformato dal percorso di una conoscenza obiettivata, fondata nell'immagine e dall'immagine. La pittura, attraverso leggi che le sono proprie, che rendono visibile la frammentazione del mondo intuito, si contrappone all'idea di una rappresentazione come semplice artifico retorico e descrittivo, testimoniando di una conoscenza profonda, ontologicamente fondata, dell'oggetto.  Conoscenza che basa i propri presupposti vitali nella comprensione e nel mantenimento della sensazione, dell'apparenza, del divenire fuggevole.

Rembrandt, Autoritratto, 1669 ca, L’Aja, Mauritshuis, dettaglio

Scostando il fragile velo di Maia, non può che apparire il nulla, l'essere come vuoto, come verità ultima delle cose. La rappresentazione, al contrario, si costruisce attraverso le caratteristiche dell'oggetto, per mezzo di un'immagine che é fonte di giudizio, al punto da divenire presupposto dell'apparenza, ma non apparenza essa stessa. Nell'opera di Rembrandt vi é, al contrario, la possibilità di trovare nell'arte una sorgente di soggettività, una dimensione in cui l'arte assuma piena autonomia, nel recupero di una realtà a lei intrinseca, che non sia banale rappresentazione di un altro-da-sé. La dimensione specifica dell'arte di Rembrandt, la sua dimensione individuale, é caratterizzata proprio dall'autonomia, dalla soggettività che impone al reale.  Con questo, il reale, si intenda sia il dogma estetico, che vuole un canone applicato in modo rispondente allo spirito epocale, sia il dogma religioso, che impone schemi e modelli legati all'autorità del testo religioso.

Ciò che in Rembrandt si manifesta é la libertà, universale e individuale al tempo stesso, dello spirito religioso, espressione di una partecipazione profonda alle emozioni che hanno origine dalla sua pittura, capace, infine, di annullare le antitesi tra apparenza e linguaggio: "Come negli individui Rembrandt esprime ciò che trascende ogni dato dogmatico ed anzi lo fonda, ossia la mera pietà, l'esistenza spirituale nel suo significato religioso in generale, così l'evento in quanto tale, con la sua natura storica, ancorata ecclesiasticamente alla massima universalità, é ridotto alla luce, rivelando l'atmosfera complessiva di un'anima per così dire sovra individuale, la cui religiosità compenetra questo frammento di mondo, una religiosità che con i suoi slanci e le sue profondità i suoi fremiti e le sue gioie, si estende al di là di questo come di ogni altro contenuto confessionale, individuando in ciascuno di essi la mera universalità della sua essenza." (Simmel, op cit.)