L’isola che non c’è
Maurizio Barberis
Impressioni
Che cosa rimane di Venezia oggi? Venezia è un’isola o un continente? Ciò che vediamo è proprio ciò che crediamo di vedere, quando osserviamo il riflesso dell’acqua sulla laguna alle prime luci dell’alba e l’illusione, la Fata Morgana, fa il suo lavoro? Bisogna guardare Venezia al sorgere del primo sole quando la luce disegna contorni senza ombre e l’impressione è più forte della sensazione. Allora le pietre della città antica ci parlano, raccontano la gloria e il dolore, le feste e la morte e il biancore della pietra d’Istria illumina le chiese e i palazzi e ci guida per le strette calli dell’isola. L’odore ristagnante d’acqua marcia annuncia il vicino canale e come una lebbra malsana ci assale il desiderio di vita, un eros sfuggente e malinconico, come la luce di quest’alba infinita. Impressioni notturne. Venezia di notte è piena di voci, voci lontane. Fragori di spezie rimbalzano nella mente di chi ha il coraggio di mettersi in viaggio in quest’ombra notturna, densa di memorie sopite, e il suono delle parole si spegne nell’acqua stagnante dei mille canali, neri come la pece. L’acqua inghiotte il ricordo di ciò che fu e ne conserva l’anima e lo spirito. Venezia appare e scompare tra le ombre notturne e la luce dell’alba, concedendo al viandante un unico momento di verità su ciò che è stata, su ciò che è e su ciò che forse continuerà ad essere: pura illusione.
Burano vs Mazzorbo
A Burano c’è il merletto e a Mazzorbo un grande cimitero. A Burano c’è sempre una gran folla di turisti che si pigiano nelle calli e affollano i ristoranti e i caffè. A Mazzorbo, invece, c’è un bel silenzio e il Ponte Longo separa due mondi e due diverse vocazioni. Si dice che a Mazzorbo sia nato il primo nucleo di Venezia, spodestato nei secoli dalla più mondana e mercantile Rialto. Cinque monasteri, cinque terre per una piccola isola con l’attitudine al sacro. Di queste e di tutte le ricchezze d’arte che le addobbavano è rimasta solo una piccola chiesa, molto bella, dove ancora si può pregare senza essere disturbati. Ricordi. A Mazzorbo si andava con gli amici e con gli amori per mangiare in un piccolo ristorante sotto una bella pergola, in un prato. Un vino fresco e torbido accompagnava le cene d’autunno. Lo chiamavano Torbolino per via del colore e della freschezza, quasi una spremuta d’uva. A Burano ricordo invece una notte di Carnevale, grandi fuochi nelle piazze e la gente che ballava in cerchio, quasi una danza pagana. Fuggimmo senza pagare il conto. Diverse vocazioni.
Aprire l’acqua
Un tratto d’acqua separa Fondamenta Nove da Murano. In mezzo l’isola di San Michele troneggia come un efficace monito alla vanità dei veneziani. Una volta all’anno, alla festa dei morti, l’acqua si apre, come un novello Mar Rosso, per lasciar passare la festa delle rimembranze, la gente di Venezia che onora il passato. Un ponte di legno, come quello della Salute, ironia dei nomi, congiunge le due sponde. Fondato nel 1800 per decreto napoleonico, San Michele conosce diversi progetti, quello definitivo dell’architetto trevigiano Annibale Forcellini che verrà terminato nel 1870. L’ultimo ampliamento, in ordine di tempo, a cura di David Chipperfield. Infine è stato dichiarato monumento nazionale nel 2013 con decreto ministeriale. Inviolabile. Ancora oggi molti sono i visitatori che approdano all’isola per ragioni diverse dalle funzionalità implicite del cimitero. Rendono omaggio alle tombe degli illustri ospiti di San Michele. Tra questi ricordiamo Ezra Pound, Emilio Vedova, Josif Brodsky, Sergej Diaghilev, Igor Stravinsky e Luigi Nono. Ultima dimora di coloro che seguirono in vita, con diverse fortune, un sogno di bellezza e di immortalità.
Rialto
E’ il punto più affollato della città, più visitato, più fotografato e meno capito. Solo i veneziani conoscono, nell’intrico di piccole calli che circondano il ponte, gli indirizzi più veraci. Piccoli bacari dove ancora, lungo rustici tavoloni di legno scuro, si può sorseggiare un’ombra di vin bon, accompagnato da un cicchettino di baccalà mantecato. Roba per palati raffinati, gondolieri e puttanieri di varia stazza e misura, un popolo di pirati e saccheggiatori.
Il ponte, rumoroso e affollato, va attraversato in fretta, gettando uno sguardo distratto sul Grande Canale intasato di barche e vaporini come un’autostrada il primo di agosto. Sui bordi negozi di preziosi, gioielli e orologi e altre amenità, più o meno volgari, ma tutte perfettamente allineate alla venezianissima tradizione mercantile. Sotto, più avanti, il mercato di frutta e verdura, dove ancora oggi si fa la spesa per la settimana, e ancora più avanti, sotto le grandi vele rosse del campiello della Pescaria, il grande mercato del pesce.
A lato del ponte il Fondaco dei Tedeschi, che conservava ancora tracce degli affreschi del Giorgione, recentemente restaurato dall’olandese Rem Koolhaas per trasformarlo in un building commerciale. Roba moderna.
The people I love
Non tutti i turisti sono turisti. Altri, molti altri, cercano tra le pietre di Venezia, quel sogno che l’ha creata. Un popolo di reduci dalle follie della modernità, dalle squallide periferie delle urbanità contemporanee, ruba qualcosa che neanche il più astuto mercante veneto riesce ad immaginare. Basta una foto, scattata in fretta, senza riflettere. Un sogno di bellezza che chiuso nella loro memoria li accompagnerà forse per sempre. Ritroviamo questo popolo vago lungo le sale dell’Arsenale, durante le Biennali d’Arte, che ancora cercano compensazione a ciò che vorrebbero dimenticare. Ma non sempre la trovano, che spesso il mercante è più forte del principe, e l’arte si piega a ciò che non dovrebbe, fama e successo, profumo di soldi. Ma questo è un altro racconto. Qui l’arte è per la gente, per le masse curiose che sbirciano l’insolito e quel diverso che profuma di spirito. Qui non si compre nulla, si guarda e basta. Un’estensione del sogno veneziano.
Sacro e profano
Difficile, nonostante l’abbondanza di chiese e monasteri, trovare ancora tracce di una passione del sacro che forse qui non ha mai attecchito veramente. Sacro e bellezza coincidono? Mondanità e clausura, grandi pittori votati alle corti di nobili eruditi, circoli esclusivi che dettavano legge ai vari Giorgione, Tintoretto, Tiziano, Tiepolo, per non parlare degli architetti, Sansovino e Palladio in testa. Arte come potere, potere come arte. Due mondi si intrecciano e non bastano mai a compensare le altrui lacune. La Scuola di San Rocco non fa eccezione. Fondata da una confraternita di battuti si trasformò via via, grazie all’importante implemento del patrimonio, in uno dei grandi centri di potere veneziano. Il ciclo di affreschi del Tintoretto, tra i più importanti della storia dell’arte- illustrano scene del nuovo e del vecchio testamento- ne costituiscono l’apoteosi, al pari di quello che nella Roma di papa Giulio II erano stati gli affreschi della cappella Sistina.
Cantari: nelle chiese erano quelle vasche d’acqua che servivano per le abluzioni purificatrici. Il nome deriva dall’antica Grecia, dove il cantaro era un vaso consacrato alle sacralità del bere.
Un amico veneziano, che molto si intendeva sia di arte che di venezianità, mi spiegava che nell’uso comune del popolo il cantaro era dedicato a ben altra funzione igienica. Sacro e profano.
Un giorno qualsiasi d’inverno a passeggiare per le vie che delimitano i palazzi delle Biennali veneziane assaporando il fascino di una visione austera, priva dell’ausilio delle opere d’arte, che ci riporta ad una verità dei luoghi.
Fuori stagione. Ecco una Biennale davvero insolita, una Biennale che assomiglia a una scenografia abbandonata, senza attori e senza comparse, registi compresi. Sperimentare l’effetto del contenitore senza il contenuto, affidandosi alla memoria per cercar di ricreare ciò che più ci è piaciuto di questo luogo negli ultimi vent’anni. Qual è dunque l’importanza della finzione scenografica, della messa in scena dello spettacolo nell’arte contemporanea, quale il luogo dove si accalcavano i protagonisti, lo spazio del loro successo nel punto dove ora risuonano nel vuoto i nostri passi curiosi? Il tempo e la memoria, due nemici dell’uomo. Il primo perché dimentica, il secondo perché ricorda ciò che si è dimenticato. L’arte anela all’immortalità e queste sale vuote, nel loro desolato silenzio mostrano tutta la vanità di questa tensione verso un infinito morale.
Il peggior nemico dell’arte è il Tempo che trasforma in Memoria le occasioni di vita. Così le opere e gli autori diventano ricordo, testimoni di un magnifico passato che si riflette nel presente solo grazie a quei luoghi deputati alla conservazione di frammenti di vita, congelati da storici e curatori nella forma del Museo. Viceversa nulla può sostituire l’emozione dell’incontro con l’opera nel luogo per cui questa era stata pensata e progettata. Un frammento di tempo quindi, destinato a durare solo nella memoria di chi lo ha vissuto.
Mandala: quella strana forma d’arte praticata dai monaci buddisti che consiste nella creazione di una complessa figura geometrica composta di sabbie colorate disposte con pazienza certosina a partire da un centro. Giorni di lavoro che si risolvono con un semplice gesto che cancella l’opera annullando simbolicamente il Tempo, vissuto come nemico della verità dell’Essere.
Arte come esperienza, arte come emancipazione. Il lavoro dei monaci ci indica la vacuità dell’opera e l’importanza del gesto, il valore dell’esperienza contro la fissazione del residuo di quella stessa esperienza. L’opera sta a monte, nel cuore dell’autore e nello sguardo dei testimoni che vivono di riflesso l’atto creativo.
Questo dovrebbe valere soprattutto per quelle tendenze che fecero del momento creativo il cuore dell’operare artistico. Momento unico e inimitabile, pensato come un valore in sé. Viceversa la Biennale veneziana mostra tutta la sua fragilità nel tentativo di trasformare l’azione, il frammento, in espressione, donandogli quindi quella temporalità illimitata grazie alla sua presentazione nel contesto auratico del Teatro dell’arte. Ancora una volta le astuzie mercantili prevalgono, a scapito della verità dell’opera. Il Teatro non è riproducibile né tantomeno ri-presentabile, soprattutto in assenza del suo unico protagonista. Ciò che rimane è appunto un residuo, che, come le sale vuote dei giardini della Biennale, testimonia solo della vanità dell’opera.