La collezione come fattore moltiplicatore d'auraticità

La casa come museo privato e proattivo

di Andrea Schubert

Credo che parlare di collezionismo sia un’impresa dai molteplici aspetti che possono via via sviscerare argomenti più o meno distanti tra loro per natura e prospettiva. Si potrebbe partire da considerazioni sociali, storico umanistiche; da considerazioni psicologiche o economico finanziarie. Per me, quindi, parlare di collezionismo in senso lato non è facile. Sono infatti viziato dal mio retroterra calcificatosi in molti anni di lavoro nel commercio di opere d'arte. Non saprei quindi se affrontare l'argomento partendo da Benjamin o da uno dei tanti aforismi succedutisi nei decenni del secolo scorso che definivano il collezionista e la sua personalità.

Bhagavata Purana, The child Krishna uproots two trees, Pahari 1st quarter of the 18th century, dettaglio

Devo confessare comunque che non è la prima volta che mi pongo il problema.

In galleria in passato ho provato a fare delle mostre per evidenziare un aspetto del collezionismo che lentamente stava prendendo forma tra le varie idee curatoriali che andavo maturando. A quei tempi vedevo il collezionismo come un fattore moltiplicatore del valore dell'opera. Un valore che forse allora pensavo più in termini economici, visto che il valore dell'arte nella nostra società ed epoca è sempre inquadrato in chiave economica, piuttosto che in chiave metafisica; forse allora stavo ancora digerendo Benjamin e il suo concetto di aura,  forse allora questo concetto era solo una distrazione dai più impellenti bisogni che l'arte poteva offrirmi, fatto sta che oggi, meno pressato da urgenze contingenti, vedo il collezionismo sotto una luce nuova che, pur confermando l'assunto di essere un moltiplicatore del valore, sposta il fuoco dal materiale all'immateriale e dal fenomeno fisico al metafisico dal venale al  mistico.

Bhagavata Purana, Krishna lifts a veil, 3rd quarter of the 18th century, National Museum, New Delhi, dettaglio

Quando feci la mostra dei “retablos messicani” della collezione Cecchini vedevo la mostra come un insieme di opere che assumevano un significato diverso se viste nel loro insieme, soprattutto in considerazione della loro fattura popolare e molto naive che non li rendevano certo una espressione d'arte colta. L'idea della mostra non era quella di esporre dell'arte folcloristica, ma mostrare l'insieme come un unico, in grado di esprimersi attribuendo valore sia all'insieme che al singolo oggetto che elevato da semplice ex voto a opera collezionabile.

Bhagavata Purana, The sage Akrura sees a vision, 3rd quarter of th 18th century , dettaglio

Più o meno fu per la successiva mostra della collezione Picini di opere indiane. Ma la svolta prospettica venne in epoca più recente con la mostra “Collezione fluida” dedicata alle opere della collezione Calvi. Venendo ad esporre una collezione di opere d'arte moderna, più affine alla mia sensibilità, finalmente riuscivo a vedere meglio il ruolo della collezione, del collezionista e dell'atto di collezionare. Tutte queste forze convergevano nella collezione ed agivano come entità scatenanti una reazione sinergica tra le opere contenute.

Bhagavata Purana, Krishna drinks the forest fire, 3rd quarter of the 17th century, National Museum, New Delhi, dettaglio

Una reazione che permetteva di rafforzare l'auriticità di ciascuna opera singola. Era l'atto stesso del collezionare ad infondere una auraticità aggiunta. Certamente non tanto quanto potesse infonderne l'esecuzione materiale da parte dell'artista, ma abbastanza e tanto maggiore quanto più era nota la fama del collezionista. Ogni opera aggiunta alla collezione agiva con un processo retroattivo su tutte le altre opere. Un meccanismo retroattivo in grado di imprimere una sorta di sinergia auratica, per dirla parafrasando Benjamin.

Bhagavata Purana, The milking of Prithvi, 2nd quarter of the 18th century, Rajasthan Oriental Research Institute, Udaipur, dettaglio

Ma al di là delle mostre è interessante vedere la collezione come agisce in rapporto al collezionista ed il luogo in cui entrambi risiedono: la casa.

Sottratta alla vista del pubblico, come nel caso delle mostre temporanee precedentemente accennate, la collezione continua a trasformarsi nel suo processo d'accumulazione. Una trasformazione non più goduta dal pubblico ma solo dal collezionista che ne diventa parte integrante, assorbito egli stesso in questo processo.

La casa museo non è più un fenomeno isolato e riservato ad alcune istituzioni pubbliche, ma si manifesta come fenomeno diffuso e liquido. Forse anche solamente uno stato mentale che nel luogo si manifesta. Un museo privato, luogo non solo di conservazione ma di approfondimento per il privilegiato fruitore. Un museo ben partecipato dal pubblico, anche se ristretto alla cerchia domestica, attivo e selettivo.

Gita Govinda, The poet Jayadeva bows to Vishnu, 1730, Chandigar Museum, Chandigar, dettaglio

Anche se non dovesse mai entrare nel dominio pubblico, la collezione rimarrebbe sempre un valore aggiunto per la singola opera che ne è entrata a far parte e che magari per altri motivi ne è uscita. Opere passate in collezioni famose sono certamente più ambite dai collezionisti di opere di provenienza anonima. A riprova di ciò basti vedere come sono redatte le schede delle opere che vengono battute nelle case d'asta: dove appena ci sono tracce di timbri e cartigli non si lesina       lo spazio in catalogo. Ma qui si ritorna al venale e per altre ragioni agli aspetti motivazionali collezionistici più intimi, legati alla personalità, psiche e contesto sociale del collezionista. Cose che da decenni animano i dibattiti tra persone erudite che citano Freud, Duchamp, Ruskin e decine d'altri pensatori della nostra epoca, ma non penso di andare oltre.