Gli armadi del Gattopardo
di Paolo Colombo
Il fatto che un libro, nella quasi assoluta maggioranza dei casi un romanzo, possa, presto o tardi, divenire oggetto di una trasposizione cinematografica non sembra più avere, oggi, il potere di sorprendere. Numerosi (e inevitabilmente destinati a crescere) sono in ambito italiano gli esempi isolabili a partire dagli Cinquanta, con un significativo aumento nel successivo ventennio: basti pensare alla consuetudine di Elio Petri con l’opera di Leonardo Sciascia (A ciascuno il suo e Todo modo, entrambi con Gian Maria Volontè), all’adattamento del Giardino dei Finzi-Contini, che valse contemporaneamente a Vittorio De Sica l’Oscar e l’ira di Giorgio Bassani, all’estremo esempio di osmosi tra i due linguaggi rappresentato da Pasolini. In pochissimi casi, tuttavia, la fortuna della versione filmica è stata tale da acquisire nell’immaginario collettivo un’autorevolezza, una percezione di originalità comparabile o perfino superiore a quella goduta dall’equivalente cartaceo: Il Gattopardo sembra essere uno di questi.
Per più generazioni di lettori/spettatori, il principe Fabrizio Corbera di Salina ha avuto il volto e la fisionomia imponente di Burt Lancaster, non certo quello di un bisnonno per metà tedesco del nobile decaduto autore del romanzo; e, allo stesso modo, nella coscienza di massa il ‘ballo’ non è il magistrale affresco tracciato nella sesta parte del libro, ma il volteggiare di Claudia Cardinale seguito dallo sguardo Alain Delon. Eppure – sembra assurdo doverlo precisare - si tratta di due opere nettamente distinte, in certo modo perfino autonome sul piano formale (non, naturalmente, su quello tematico), tanto che non solo molte parti del romanzo non trovano cittadinanza nella pellicola, come è inevitabile che avvenga, ma talvolta è il film a innovare. Diversissimi sono ad esempio i due finali: al termine del ballo, il Don Fabrizio di Luchino Visconti si allontana a piedi, scomparendo lentamente in un vicolo buio; quello di Tomasi di Lampedusa morirà ventuno anni più tardi, nel luglio 1883, rispettivamente mese e anno di nascita di Benito Mussolini.
Ma il romanzo non si conclude con la fine del suo protagonista, e questo per una ragione intimamente connessa al suo messaggio profondo, che insiste su una morte più generale e diffusa, su un senso di disfacimento che agisce indiscriminatamente su persone, animali, oggetti, istituzioni. Nell’ottava e ultima parte, ambientata cinquant’anni dopo la prima e nella stessa villa, le sorelle Salina (figlie di Don Fabrizio) vivono sole, inaridite e nel pieno di una decadenza che per la prima volta intacca gli ambienti, annientandone lo sfarzo.
La camera di Concetta, vera protagonista delle pagine conclusive, è così descritta dal narratore: «Era una di quelle stanze (sono numerose a tal punto che si potrebbe esser tentati di dire che lo sono tutte) che hanno due volti: uno, quello mascherato, che mostrano al visitatore ignaro; l’altro, quello nudo, che si rivela soltanto a chi sia al corrente delle cose, al loro padrone anzitutto cui si palesano nella propria squallida essenza».
L’«essenza» di quella camera risiede appunto nella capacità di testimoniare tramite la forma esteriore una duplice parabola di declino. Innanzitutto, quella riferibile al destino generale dell’antica aristocrazia, e dunque anche della famiglia Salina, che vede i suoi ultimi rappresentanti abitare le antiche dimore ormai deturpate da un mobilio «di esecuzione paesana», un arredamento che la stessa Concetta non fatica a definire «di pessimo gusto»; ma la stanza è anche il teatro di un appassimento personale e individuale, segnato non tanto dallo scorrere degli anni, quanto dalla rinuncia a ogni coinvolgimento vitale, intellettuale o estetico.
E l’immagine più eloquente di quest’ultima dinamica è offerta da alcuni oggetti che per la loro eccezionalità si impongono nella generale mediocrità dell’arredo: «Due cose soltanto potevano forse apparire inconsuete: nell’angolo opposto al letto un torreggiare di quattro enormi casse di legno dipinte in verde, ciascuna con un grosso lucchetto; e davanti ad esse, per terra un mucchietto di pelliccia malandata».
Anche qui, il gioco narrativo è legato alle apparenze: nessun estraneo potrebbe sospettare che la «pelliccia malandata» altro non sia che la mummia di Bendicò, il cane prediletto del defunto principe, o che in quelle casse di legno verde sia conservato, da oltre cinque decenni, il corredo nuziale della ragazza rimasta poi nubile; e paradossale, inspiegabile può sembrare, a distanza di cinquant’anni, l’accanimento con cui la stessa ragazza, ormai anziana, si ostina a trascorrere quotidianamente lunghe ore a diretto contatto con un ambiente popolato di memorie tanto dolorose quanto impossibili da abbandonare. In un certo senso, proprio in questo tipo di paradosso è da cercare il senso che gli interni, le case, i giardini, i saloni hanno nel romanzo: ciò che affligge l’ultima protagonista del Gattopardo non è il tutto moderno e contemporaneo