Carlo Del Bravo è stato un mio fantastico docente a Firenze, mentre studiavo con Mina Gregori: come quest'ultima è vulcanica ancora oggi a 95 anni, il 'grande Carlo' - che è scomparso poco prima del Ferragosto 2017 - era algido ma nel contempo appassionato nel raccontarci tutta la storia dell'arte con la curiosità di un ragazzo. Mi ha aperto strade nuove, fatto conoscere artisti fino ad allora sconosciuti come John Singer Sargent, un sublime testimone del tramonto dell'aristocrazia europea e anglosassone, dotato di un talento immenso e naturale nella sua semplicità (come tutto Manet e Picasso e il tardo Cezanné, tanto per intendersi). Oggi è venuta fuori questa breve epifania, un ricordo affettuoso e riconoscente verso un maestro.
Carlo De Bravo. Essere maestro
di Luca Violo
Essere maestro per Carlo Del Bravo era porgere agli allievi che seguivano le sue affollate lezioni un intimo godimento intellettuale che rasentava l’ebrezza, tanto era sottile e nel contempo affettuoso l’esporsi adamantino delle sue babeliche quanto fantastiche connessioni, ora sulle turgide follie plastiche di Gian Lorenzo Bernini e le incantevoli trasparenze di John Singer Sargent - eccelso cantore di una dorata aristocrazia che bruciava con sfrontata leggerezza il privilegio di poter scegliere un vita votata ad una languida bellezza -, fino ai nascosti turbamenti naturalistici dell’amato Lorenzo Bartolini, con una voce baritonale e soffusa che ti entrava direttamente nell’anima.
Di un’eleganza impeccabile che era specchio di una vita votata all’eccellenza sia nell’essere che nell’apparire, era inflessibile, a volte implacabile con se stesso come con i suoi allievi da cui pretendeva una fede assoluta e incrollabile. La raccolta stanza rettangolare con soffitti alti con le grandi finestre oscurate da pesanti tende in via degli Alfani a Firenze, era il convivio di persone che con estrema felicità condividevano gli infiniti meandri di una cultura alimentata da passione travolgente e che usciva, quasi in maniera messianica, dai suoi ordinatissimi quaderni scuri, dove ogni riga era coperta da una grafia piccola e quasi pudica nel suo apparire.
Essere maestro era un fugace sorriso conversando prima di una lezione con i suoi allievi più cari. Era alzarsi insieme all’alba per ammirare con incantato sgomento il fascio di luce che proveniente da una finestrella nascosta, colpiva il volto della beata Ludovica Albertoni nella chiesa di San Francesco a Ripa a Roma, così da cogliere quell’attimo di eternità plastica dove l’elevazione spirituale si confonde con una paradisiaca carnalità. Essere maestro era suggerire viaggi spirituali inaspettati ed emozionanti come epifanie che servissero a costruire un percorso di ricerca che naturalmente si sottraeva all’ovvio, per comprendere con vivida profondità gli infiniti intrecci culturali, filosofici, storici, politici e semplicemente umani, che sottintendono ad un’opera d’arte che come uno specchio diventa l’immagine riflessa di una eterna modernità.
Essere maestro era una missione che esaltava la sua enciclopedica conoscenza aperta alla sedimentazione, che oltre il tempo, rimane esemplare.