Mimesis

Dalla ‘Maison Celibataire’ a ‘La maison que j’habite’

La casa come opera d’arte totale

Patrizia Catalano e Maurizio Barberis

La Maison Celibataire

Negli anni Settanta la Biennale di Venezia ospitò una celebre esposizione dedicata al tema delle Machine Célibataire, the bachelor machines, ovvero dedicata a tutte quelle invenzioni, più letterarie che reali, che presentavano un grado di utilità voluttuosamente nullo, e un grado di voluttà scandalosamente entropico. Non producendo alcunché, se non un’entropia del piacere, tali macchine si potevano considerare tout court imparentate con l’opera d’arte moderna. Il tema prendeva spunto dall’analisi della celebre opera duchampiana, Le Grand Verre ovvero ‘La Marièe mise à nu par son célibataires, même’ conservata al Philadelphia Art Museum. Nell’interpretazione di Maurizio Calvesi il Grand Verre viene letto come una sintesi dell’opera alchemica, una summa dell’arte spagirica, il cui simbolismo può essere ridotto a tre elementi essenziali: la parte inferiore del vetro, dove sono collocati gli sposi, i celibi, i testimoni oculari, nel numero di dodici, corrisponde alla terra (o al fuoco) incubatore dello spirito mercuriale, la parte superiore del vetro, dove è collocata la sposa, la Marièe (Maria o Vergine), che rappresenta il cielo, il luogo dell’assunzione, della volatilizzazione-sublimazione mercuriale, il luogo dello spirito-mercurio che si oppone al corpo, la linea di orizzonte infine, che divide il cielo e la terra, il luogo essenziale alla trasmutazione, poiché condivide la natura di entrambe senza essere ne l’una ne l’altra.

La Maison Celibataire rappresenta quindi l’inconscio tentativo di dare un luogo a questa linea d’orizzonte, un luogo che Roberto Calasso ha definito come un chi, e non come un dove o un cosa. Un tentativo di offrire una rappresentazione del topos più oscuro e incerto dell’animo umano, quello che segna il confine tra la terra e il cielo.

Ogni ‘maison célibataire’, che si rispetti condivide dunque questa struttura erotico-iniziatica con l’opera di Duchamp, e quindi, secondo la nostra ipotesi, questo modello ieratico può essere individuato anche nella mise-en-scène della casa del collezionista. La ‘maison celibataire’ viene intesa quindi come una particolare declinazione del modo di concepire gli interni domestici, vissuti come un’opera d’arte totale, una sorta di sinestesia proiettata verso l’assoluto, verso l’annullamento del tempo, verso un’idea di immortalità che si oppone in ogni sua manifestazione all’idea funzionale di casa, quella regolata dalla relatività delle cose, quella, per intenderci, racchiusa nello spazio che va dal frigorifero al w.c. La casa vissuta quindi come un mondo individuale costruito ‘su misura’, un mondo immaginario di cui solo l’autore ha la chiave d’ingresso, che si oppone al mondo reale come un’isola dove la vita si consuma in felice solitudine.

La maison que j’habite

Qualche anno fa il museo di Nantes dedicò un’ampia retrospettiva all’opera del grande fotografo ‘surrealista’, Brassaï. Il titolo dell’esposizione deriva da un lavoro pubblicato sulla rivista ‘Le Minotaure, “la maison que j’habite, ma vie, ce que je vis…”.  La ‘casa che abito’ è in realtà un’espressione che indica l’universo composito, frammentato, fatto di segni, di cose, di elementi naturali, cristalli, frammenti di legno, che sono l’oggetto di un lungo lavoro di ricerca e catalogazione dell’autore. Di fatto una collezione che mette assieme, attraverso l’immagine fotografica, strumento privilegiato d’espressione del poeta Brassaï, le esperienze che compongono l’universo magico e onirico nel quale si identificava la sua ricerca poetica. La maison que j’habite…ma vie… La casa è un universo di cose, frammenti di esperienze, che l’occhio del collezionista scompone e ricompone per dare vita e immagine al suo sogno di appartenenza. Il mondo, questo spazio freddo e ostile, diviene familiare e amico, addomesticato attraverso l’accumulo selettivo di oggetti, segni, che ricomposti in buon ordine nella casa, danno significato, e quindi senso di appartenenza, al suo essere nel mondo. Attraverso questo puzzle psichico il collezionista salva e conserva il ricordo del cosmo, per congelarlo, attraverso le forme istituzionali del museo, o meglio ancora della casa museo (D’Annunzio vs Joseph Cornell?).

Trattenere le cose per fermare la vita che è trascorsa attraverso di esse è un’esperienza che esprime, attraverso un desiderio di immortalità, la paura della morte. L’operare del collezionista è quindi simile e vicino, strettamente imparentato, a quello del fotografo immortalato da Roland Barthes nella Camera Chiara, la cui opera è tesa, attraverso l’atto estetico, a congelare un momento del passato donandogli una sorta di virtuale immortalità. Potremmo forse dire che, in fondo, la fotografia è stata inventata solo a questo scopo, la conservazione del ricordo, donando una sorta di universale immortalità. Due le principali azioni del collezionare, l’accumulo e la selezione, condizionate vuoi dalla passione vuoi dalla necessità razionale di dare ordine a un universo confuso.  La casa è il luogo di elezione dove si svolgono contemporaneamente le due azioni, quella dell’Io che si ritira e si protegge, (accumulo) e quella del Sé che mette in scena la dialettica tra pubblico-privato (selezione). Le due figure, o almeno i risultati del loro agire, si intrecciano in un nodo indissolubile nel desiderio di sconfiggere la precarietà della vita.

Ma la casa è sempre la ‘mia’ casa, e le cose oggetto della mia ansia collezionistica son pur sempre le ‘mie’ cose. La mia collezione riflette dunque in maniera esclusiva il ‘mio’ punto di vista, il ‘mio’ desiderio di rifondare il mondo, di rendere chiara la mia appartenenza ad esso. Entro certi limiti, quelli delle mura domestiche, le cose segnano un passato, una storia, un ricordo assolutamente personale. L’opera del collezionista, come autore e creatore di mondi, trova rifugio in un luogo privilegiato, che ha bisogno della consapevolezza e del consenso degli altri, utilizzando essenzialmente categorie estetiche che superano di gran lunga le potenziali motivazioni economiche: “... Ce que j’aime, et cela passionément, c’est de donner à un objet sans prix un valeur...”. ( Brassaï.) Non è un caso il ‘marche au puces’ diventi per i surrealisti un archetipo famigliare, che può scatenare l’immaginario onirico attraverso una catena referenziale infinita. Brassaï, collezionista compulsivo, adepto delle ‘puces’, trasferisce nell’immagine fotografica la sua ansia accumulativa, operando nella sequenza delle immagini un processo analogo al collezionare: “...ce que j’ambitionne ce de faire quelque chose de neuf et de saisissant avec le banal e le convenu. Je ne cherche pas les sujets exceptionnels, je l’evite...”. Il gioco dell’assemblaggio collezionistico diventa così ‘le jeu savant’ che porta alla scoperta della ‘poesia naturale’, della creatività ‘du hasard’.

Il valore poetico dà un senso all’anima predatrice del collezionista, sublimando così la compulsività attraverso i significati letterari, filosofici o estetici degli oggetti collezionati. Se la passione collezionistica è al suo inizio solo una forma derivata da uno stato psichico alterato, una sorta di escrescenza morale dell’idea di possesso, determinata dall’imperativo categorico dell’accumulo compulsivo, dall’ebrezza delle esperienze generate dal desiderio di completare il mondo, solo in un secondo tempo si produce un nuovo universo, grazie alla sublimazione letteraria operata dalla mise en scene della collezione. Se i valori delle cose e delle esperienze vengono catalogati e registrati e così trasfigurati sulla base di certe determinate categorie estetiche, fattori formali piuttosto che qualità letterarie, il risultato è sempre e inevitabilmente diretto verso quella poesia naturale, quell’estetica dell’azzardo e del caso inevitabilmente a ‘alto indice estetico’.La casa-museo e il suo immaginario poetico: ovvero il collezionismo come forma d’arte, l’arte come forma del collezionismo. Partendo dall’esperienza fatta da Picasso e Brassai, che consisteva nell’accumulo casuale di emozioni, sensazioni, graffiti periferici e objet trouvet, operazione che costruisce di fatto una sorte di museo immaginario fatto di collezioni virtuali, emozioni casualmente assemblate secondo la legge dell’hasard, si può postulare l’idea che una delle ragioni alla base della motivazione spirituale di un autore sia proprio l’ansia collezionistica (Joseph Cornell). Il desiderio di immortalità che muove lo spirito dell’artista sembra poggiare sulle stesse motivazioni del collezionista: accumulare e selezionare, ovvero:

Immortalità: Il rapporto con il tempo Il collezionista-artista vuole salvare e conservare il ricordo di sé attraverso il ricordo del mondo, per congelarlo, attraverso l’espressione di un bisogno di ricondurre le forme istituzionali del museo a quelle di un luogo familiare e domestico, Memoria vs ricordo L’opera del collezionista-artista, come autore e creatore di universi, trova rifugio in un luogo privilegiato, virtuale e al medesimo tempo reale, che ha bisogno della consapevolezza del mondo, della sua memoria, per giustificare la compulsività del gesto, utilizzando essenzialmente categorie estetiche che superano di gran lunga le potenziali implicazioni economiche, in senso stretto e in senso lato, del suo operare.

Dal ‘marche au puche’ al ‘marche au beaux art’ Accumulare e selezionare L’accumulo e la selezione, condizionate vuoi dalla passione vuoi dalla necessità razionale di dare ordine a un universo confuso e privo di bellezza, costituiscono le principali azioni del collezionare, e di riflesso, dell’operare artistico. Come lo scultore muove da un blocco d’argilla compatto e via via selezione le strade possibili per il compimento dell’opera, così il collezionista d’arte partendo dall’insieme di fattori estetici, di esperienze e di oggetti che ne compongono l’orizzonte, definisce il proprio universo domestico e rituale.    

Le jeu savant Il collezionismo come gesto poetico, come forma d’arte tout-court Il gioco dell’assemblaggio collezionistico diventa ‘le jeu savant’ che porta alla scoperta della ‘poesia naturale’, della creatività ‘du hasard’. E’ quindi il valore immateriale, poetico, al di là dell’ambizione personale di un ego deciso a dare forma a un mondo su misura, di un collezionista-artista, che cristallizza il mondo degli oggetti in una sorta di museo privato, luogo della memoria personale dell’autore. Dalla scatola alla stanza, dalla stanza alla superficie assoluta del quadro.

Un collezionismo compulsivo in grado di proporre un universo che enfatizza il tema dell’accumulo selettivo, che raccoglie in modo un po’ ironico e surreale una collezione di oggetti pensati e testimoniati da architetti, designer, artisti, letterati per una casa museo. Un modus operandi attraverso il collezionismo, la sua quota di rilevanza artistica e letteraria che trova ospitalità nella memoria e nella aspirazione di trasformare la casa in un luogo d’arte. La casa diviene quindi un luogo di sosta, dove l’immaginario collezionistico produce nuove idee e nuove suggestioni, che non possono fare a meno di un pubblico ironico, curioso, dandy e, naturalmente, collezionista.