Casa dell’anima, casa del tempo

by Roberto Walden

L’architettura sviluppa un’idea di spazio che appartiene ad un certo ‘spirito del tempo’ attraverso una serie di forme che ne rappresentano l’anima. Tutto questo naturalmente potrebbe essere detto per qualsivoglia oggetto prodotto dall’uomo, ma nella casa, nella sua rappresentazione come luogo domestico, la qualità delle relazioni sembra possedere uno spessore diverso. L’atto dell’abitare è vissuto attraverso un immaginario animato da uno spirito sottile che relaziona gli elementi sensoriali con strati archetipici più profondi. Orizzontalità e verticalità, ad esempio, sono qualità definite dalla materia della struttura architettonica che si trasforma in labili volute psichiche nella coincidenza con la loro immagine. L’orizzontalità comporta un’aderenza all’hic et nunc di una certa forma che trova nella tipologia della residenza una sorta di adeguamento stilistico ai canoni estetici dell’epoca. La questione diventa un poco più complessa quando da questo elementare livello (orizzontale, appunto) si passa alla sua rappresentazione-messa in scena, un vissuto più o meno ermetico che si confronta in parte con una foresta di simboli relativamente codificati ed in parte (forse la stessa parte) con una serie di metafore che appartengono alla zona oscura della monade. La casa è luogo di fondazione, riflesso analogico di una espressione della coscienza sapienziale e mitologica: “…l’uomo realizza la propria forma spirituale attraverso quella del tempio o, viceversa, configura la forma del tempio assecondando la propria forma interiore. Questa conformità, questa simmorfosi del tempio spirituale e dell’uomo è il segreto stesso…” (H.Corbin).

Maurizio Barberis, Dalla casa di Alain Danielou, Roma

Dai primi santuari ipetrali, diffusi dalla cultura buddhista indiana, dove una albero collocato al centro dello spazio sale attraverso un foro nel mezzo del tetto, alle architetture organiche di Wright, che forse riflettono inconsciamente quella prima verità formale della verticalità cosmologica, passando per la trasformazione ‘psicologica’ del mito, dove la casa e con essa l’idea di residenzialità, integra lo spazio del sacro attraverso le ritualità che attorno al focolare salgono al cielo per il foro praticato nella testa/tetto della casa. Poiché esiste una corrispondenza analogica, in uso anche nel linguaggio comune, tra le parti del corpo e le parti della casa, proiettate come frammenti nei sei lati del mondo (Cardona). Il cuore domestico è il focolare rituale, l’altare vedico dove vengono consumati i sacrifici, e da dove si sprigionano le energie benefiche che si elevano attraverso il fuoco, passando per il tetto, che come la testa dello sciamano deve restare aperto.

Husserl aveva affermato che l’azione fondamentale del riconoscimento dell’altro passa attraverso lo smembramento dell’io nei fatti temporali (passato-presente-futuro). Tale azione di auto-riconoscimento non passa però solo attraverso le qualità temporali, ma bensì attraverso quantità spaziali. I sei lati del mondo, appunto. La riscrittura dello spazio domestico comporta quindi una ricomposizione ego-logica, una ridefinizione dei confini dell’io, interna al rapporto che si stabilisce tra discreto e continuo, tra luogo e durata. E’ ancora la casa, quindi, o perlomeno la ‘forma simbolica dell’abitare’, che riflette l’aggregazione e la disaggregazione del vissuto temporale. La casa invecchia e muore e come un organismo si consuma assieme al suo proprietario.

Maurizio Barberis, Dalla Casa di Gabriele D’Annunzio, Gardone Riviera

Si potrebbero citare i raffinati inventari alla Perec fotografati da Boltanski nel 1973 (fauteuil, table ronde, table roulante, buffet, chaise, …). Oggetti in cerca di una riqualificazione, di un riassemblamento, in cerca di una nuova metafora che li ricollochi nel cuore di qualcuno. Ecco dunque la casa diventare l’insieme di oggetti che la popolano, più l’esprit, materia dialogante, di chi la abita. Così anche gli oggetti divengono abitati, come i balocchi con cui giocavamo da bambini, silenziosi compagni della nostra solitudine.

Maurizio Barberis, dalla casa di Jose Plecnik, Lubiana

E’ grazie all’insieme di queste relazioni affettive che la residenzialità contemporanea ha potuto travisare l’impropria metafisica della quotidianità, ovvero gli elementi di quella psicologia del profondo che riguardano l’identificazione della casa con i valori di sicurezza, robustezza, comfort, etc., o con la totale assenza di questi. Come lo specchio di Uqbar (Borges), gli oggetti ci inquietano con la loro parziale congiunzione con l’enciclopedia, mentre dal fondo della nostra stanza ci spiano, oscuri testimoni di uno spazio altro. Che ne è, infine, di quell’archetipo che ricostituisce la nostra identità cosmologica, le nostre relazioni con le infinite qualità dello spazio degli angeli Sabei? Se è vero, come è vero, che lo spazio domestico riflette il naturale composto che rappresenta la nostra anima, quale anima dunque può riflettere l’assenza di un luogo dell’abitare nella nostra contemporaneità? L’interno della monade ci confonde o ci rianima, collocando nuovi punti di fuga per dialogare con la massa prevaricante delle tecnologie tardo capitalistiche. Il rito è ripetuto, ostentato, all’interno di un focolare domestico che lo rende virtuale, come un altare vedico, spalmando in tutto l’universo lo spazio sacro compresso nell’idea di centro.

Mundus Immaginalis, area di passaggio tra immanenza e trascendenza, per contenere tutte le virtù e le nefandezze di una totalità transeunte. Poiché nessuno è ancora riuscito a trasformare l’infinita nostalgia del viaggio nella cristallizzazione di uno spazio domestico o, ancor meglio, nello spazio della nostra urbanità, per poter cogliere l’infinita bellezza del trans-correre, del fluttuare, contro la granitica pesantezza delle nostre città feticcio.

Esiste una parola sanscrita, , anzi, meglio, una desinenza, che indica misurazione, progettazione, costruzione, e fonda l’antico gesto di un immaginario geometrico che vuole individuare regole assiomatiche per la costituzione del numero/ritmo, attributo di relazione tra la forma dell’anima e la forma della casa.

Maurizio Barberis, dalla casa di Fosco Maraini, Firenze

come mandala, la casa archetipo fatta di sabbia e di niente, come acqua che scorre. Mandala come casa del tempo, casa della musica, casa dell’anima: “...Leibniz opera dunque un grande meccanismo barocco, tra il piano inferiore, munito di finestre, ed il piano superiore, cieco e chiuso, ma per contro risonante, come una sala da musica che fosse in grado di riprodurre in suoni i movimenti visibili in basso...”, (G.Deleuze). Nella legge del continuo l’anima si presenta come un labirinto, un’architettura dello spirito, e la materia come un continuum che ne riflette, nel suo labirinto, le possibilità infinite. Il Mandala, casa virtuale, assume e stratifica, avviluppa e inviluppa, in un gioco infinito di rispondenze, gli anfratti più oscuri dell’anima:

“...Osserva nell’architetto l’idea della casa riposta nel suo cuore come un seme nella terra: quell’idea emerse da lui come un germoglio dal suolo...Osserva la casa e i palazzi: un tempo erano parole magiche dell’architetto...” (A.Coomaraswamy).

Maurizio Barberis, dalla casa di Georges Sand, Noaille

Mã come Mandala, o come maya, magia, atto d’amore che cristallizza in una forma esterna quella particolare idea del rapporto tra spazio e tempo che è contenuto nella casa-tempio, nella pelle del cosmo che avvolge la nostra psiche. Una crittografia, questa, che si pone di fronte al mondo come una possibile scrittura segreta della struttura delle forme in grado di rendere palese, attraverso l’interpretazione, la cifra comune della casa e dell’anima. E’ proprio sul crinale che separa la causalità tecnologica o delle tecniche del segno retorico, inteso nel suo significato originario di ricerca del vero, che ritroviamo la necessità della decodificazione dei segni che costituiscono la forma dell’abitare. Segni che non si rappresentano come una scrittura ma come un alfabeto di simboli.

Maurizio Barberis, dalla casa di Gore Vidal, Ravello

I modelli residenziali proto-razionalisti sembrano volerci ricondurre a questa purezza originaria, a questa forma prima del linguaggio architettonico. La vocazione al superamento dei vernacoli locali e la fondazione di uno stile universale sembrano evocare quell’Ursprache che, al di sopra dei dialetti particolari, fondi l’evidenza dell’oggetto. dall’azzeramento del dettaglio, dall’annullamento del non essenziale, non eidetico e pertanto non bello, si muovono le riduzioni strutturaliste di un Owen Jones.

Ma l’ornamento è bensì il cuore del ritmo, della sintesi spazio-temporale, e altresì della possibilità di astrarsi da questi ( spazio-tempo), come la danza dei dervisci. Come questa, la danza, l’ornamento contiene, prima di ogni altra cosa, il respiro del continuo, del fluire eracliteo della materia nello spazio, del simile sempre diverso. L’ornamento è il segno che guida la mano, che consente lo scatto escatologico e trascendentale. Le simmetrie, le leggi dello specchio, ci indicano la struttura portante dell’ornamento. L’arabesco, lungi dal restituirci un semplice intreccio di volute, rappresenta per i Sufi un vero Teatro della Memoria. La casa sta all’abitare come l’ornamento al viaggio (Nostos). Segno tangibile, sensorializzato, di un intreccio epico, che ipostatizza le virtù di un nomadismo urbano.

Maurizio Barberis, dalla casa di Tito, Bled