Un americano a Venezia

di Patrizia Catalano

Wiliam Dean Howels era un autentico uomo dell’Ohio, giornalista e scrittore, è stato uno dei protagonisti della storia americana del XIX secolo, uomo discreto ma curioso, grande appassionato di letteratura. Accolto giovanissimo nel circolo dei bostoniani (dove conobbe Emerson, Lowell e Hawthorne) venne presto riconosciuto come il padre del realismo nord americano. Sobrio nella scrittura, come lo definì il suo intimo amico di Marc Twain, Howels approdò in Europa, e più precisamente in Italia, dove fra il 1861 e il 1864 rivestì il ruolo di primo console americano a Venezia. Il motivo per cui Howells fu designato console della Serenissima fu dato dal fatto che tra i suoi numerosi libri si annovera anche un’importante biografia di Abramo Lincoln. L’avventura italiana lo appassiona al punto che, nel 1866 al suo rientro in America, pubblica Venetian Life. Diario di un giovane diplomatico americano nella Venezia dell’Ottocento. Il libro (pubblicato in Italia da Altra Storia), rappresenta un raffinato e prezioso documento di quello che era la città lagunare nel XIX secolo, periodo complesso politicamente, visto che si stava formando il regno d’Italia, e certamente lontano dai fasti dei secoli passati della Serenissima. Ma certamente dal libro di Howels, che divenne in breve tempo un classico per i viaggiatori dell’epoca, si percepisce uno spaccato di quell’idea di città, coesa, viva, palpitante, a cui la metropoli contemporanea ci ha disavvezzato.  I sessantotto capitoli in cui Howels ha suddiviso il libro raccontano di Venezia e del suo straordinario bacino lagunare da più punti di vista. Si affrontano temi come la vita quotidiana, le testimonianze artistiche, il paesaggio, gli abitanti, la politica e molto altro.

Monogrammista GDM, ingresso trionfale di Enrico III  a Venezia, (Venezia, Biblioteca Marciana)

Tutto ha inizio una fredda mattina di dicembre in cui Howels arriva con la sua famiglia in città: era l’alba, si sentiva stanco e stremato e nutriva il terrore di essere facilmente preda di quei mendicanti pittoreschi “una spietata congrega di individui che tengono la vostra gondola accostata alla riva, ostentano un servizio, che in realtà è una seccatura, e non si considerano affatto dei truffatori matricolati”. Ben presto alla paura subentra lo stupore: “C’è qualcosa nel respiro benedetto d’Italia che predispone il tuo arrivo in questo luogo... . Mentre la gondola scivolava lontano dalle luci, lungo l’oscurità silenziosa dell’ampia via d’acqua, dimenticai il freddo sofferto per due giorni e due notti, dimenticai che anche in quel momento avevo molto freddo, e scordai pure l’ammiccamento e la nostalgia che era in me. Nulla potevo provare che non appartenesse alla magia di quel silenzio rotto solo dallo sciabordio dei remi, lo stracciarsi dell’acqua reso argenteo dalla luce delle stelle”.

Andrea Palladio, grafico di un palazzo a Venezia, dai “Quattro Libri”

Howells manterrà negli anni del suo mandato consolare (di cui per altro nel libro non fa cenno) un rapporto di odio-amore con la città a cui era stato destinato, riconoscendone vizi e virtù. Ne apprezzò certamente la bellezza, la vivacità del popolo sempre indaffarato e a fare ciacere, ma non ne comprese fino in fondo le abitudini, tra cui per esempio una certa indifferenza per il cibo e la frequentazione dei ristoranti (spesso sporchi e modesti) a favore di altre attività conviviali come le passeggiate, le feste e le danze. Lo infastidiva una certa indolenza: l’ oziare nei caffè di quella che lui chiamava “La Piazza”, in particolare al Florian che accoglieva la crema della città; così come deprecava una certa mancanza di discrezione degli abitanti (del resto il termine privacy in italiano è intraducibile), un ‘malcostume’ che portava le gentili signore a utilizzare il binocolo per meglio osservare passanti e conoscenti. Al contrario, fu sempre affascinato dal costume locale di vivere molto all’aperto: “A Venezia” scrive “l’assenza di polvere, del rumore degli zoccoli e delle ruote, induce a condurre una vita sociale fuori casa in misura maggiore che in qualsiasi altra città  italiana, sebbene questa usanza sia comune in tutta Italia”.

L. Grandis, spaccato trasversale del Redentore a Venezia, (Venezia Museo Correr)

E ovviamente “La Piazza”, come amava definirla Howels, che era ovviamente piazza San Marco, rappresentava il centro della vita sociale di tutti i veneziani, dove si approdava e si dipartiva, ma altrettanto importante in città era il campo, “...una piccola città autogestita indipendente”, ... “Ogni campo ha la sua chiesa. ... All’interno dei propri confini esso comprende una farmacia, una bottega di tessuti e sete, un fabbro, un calzolaio, un caffè più o meno vivace, un negozio di frutta e verdura, una drogheria”. Ma nel campo di quella che oggi potremmo definire la città dei  quindici minuti, c’era un via vai continuo di venditori ambulanti, e perfino, secondo una logica di economia circolare, “una bottega di oggetti usati dove poter acquistare ogni genere di articolo”. (Del resto, i negozi e i mercati di recupero e riciclo erano in gran voga un po’ ovunque in Europa, molto citati anche da Balzac nella Comedie Humaine). Lo scrittore americano apprezzava inoltre il sistema urbano  di una ‘città-casa’: “...gli italiani, e in particolare i veneziani, quando il tempo è piacevole, fanno dell’intera città la loro casa. La gente ama vivere all’aperto, sedersi a bere caffè e consumare gelati ... qualsiasi sia la stagione, è la passeggiata lo svago preferito degli italiani”. Per Howels il modello italiano, di cui Venezia rappresentava il sommo esempio, si qualificava soprattutto attraverso una grazia nel convivere, dove i ceti anche se di diversa estrazione ben si amalgamavano, e dove qualsiasi cittadino aveva pari diritti di fronte alla giustizia. Venezia era infatti una città, in cui festività come il carnevale, le regate, le ritualità religiose coinvolgevano tutti, erano eventi corali senza alcuna distinzione sociale.

Facciata della Scuola di Santa Maria della Misericordia a Venezia (Vicenza, Museo Civico)

E’ piuttosto evidente che quell’organismo rodato da centinaia di anni di storia e di democrazia, nonostante vivesse in una fase di decadenza culturale ed economica, rappresentava agli occhi del giovane console qualche cosa di unico, assai diverso dalla “rude” cultura del nord Europa degli Stati Federali Americani.  Peccato che quest’ultima sia risultata vincente: risulta evidente a noi contemporanei che il modello attuale dominante di tradizione nord occidentale, è quello di una città più asettica, profondamente dominata dalle lobby economiche ben lontano dalla civitas delle italiche genti e più in generale dalla cultura mediterranea. Lo scrive chiaramente negli anni dell’oggi Salvatore Settis nel suo libro “Venezia muore” (edito da Einaudi) in cui racconta di come la città delle città abbia subito nella seconda metà del Novecento un declassamento che l’ha portata dall’essere un organismo fervente di vitalità a una Disneyland della cultura, pensata per essere attraversata (distrattamente) ogni anno da decine di migliaia di persone che ne stravolgono la natura per cui era nata, quella di produrre bellezza e armonia attraverso una meravigliosa architettura fruibile ai più. Una “Venezia senza popolo” dice Settis non può essere un luogo, una città che fino al 1951 contava 174.808 abitanti (ne aveva 129.761 nel 1540 prima della peste) arriva nel 2014 a contare 56.684 abitanti e probabilmente oggi ancora meno. Qual è il volto attuale della città? “Mentre la città si svuota” spiega Settis, “calano su di essa ricchi e famosi, pronti a comprare  a costo altissimo una casa status symbol da usare cinque giorni l’anno”. A questo si affianca il fenomeno dei bed & breakfast “una peste che affligge, decimandolo, il tessuto sociale della città, la sua coesione e la sua natura civile”.

Progetto settecentesco per il campanile di San Giorgio a Venezia, (Venezia Archivio di Stato)

Nonostante le molteplici grida di allarme, i movimenti nati anche Oltremanica per salvare Venezia, la città nel corso dell’ultimo decennio ha continuato imperterrita la sua strada a favore di una proliferazione di B&B (se ne contano qualche migliaio ma potrebbero diventare decine di migliaia) grazie al Piano Casa della regione Veneto. Inutili gli allarmi lanciati da figure della statura di Settis: “Nel 1950” racconta “vi furono 1954 nuovi nati a fronte di 1932 morti. Dal 2000, le proporzioni mutano completamente, passando a un forte saldo negativo: 404 nati 1058 morti”. Eppure rileggendo il testo di Howels risulta lampante quanto la città delle città si avvicina ai modelle aspirazionali della nuova urbanistica: un luogo da percorrere a piedi, in cui nell’arco di quindici minuti si raggiungono tutti i servizi necessari, un luogo di benessere e di condivisione dove poter stare più a lungo possibile all’aria aperta, fare passeggiate, condividere saperi e piaceri. Eppure...  Il paradosso è che ora noi crediamo che la Venezia di oggi devastata dall’acqua alta del novembre 2019, dall’era trans-pandemica che ne ha svuotato (momentaneamente) hotel e B&B, dagli ambulanti e commercianti di ‘cose’ made in China, sia costretta all’ineluttabile destino di una morte lenta e dignitosa. Una agonia perpetuata dalla calata di compagnie straniere pronte a investire nel mondo dell’ospitalità in cui, notizie recentissime, stanno  aumentando gli hotel di lusso in mano straniera  (12 alberghi a 5 stelle stanno passando nelle mani di grandi gruppi dell’hotellerie internazionali) e si prevede l’ingresso a numero chiuso. E’ proprio questo quello che si riesce a immaginare per una città come Venezia?  Lasciarla, svenderla in mani orientate verso il profitto de-naturalizzandola al 100 per 100?

Andrea Palladio, secondo progetto per il ponte di Rialto, (dai Quattro Libri)

Credo che gli architetti abbiano da giocare una partita a dir poco elettrizzante se hanno voglia di mettersi in gioco: si tratta di pensare a un mondo diverso che, perché no, prendere ispirazione da culture passate, da gesti semplici ed autentici, da stili di vita che tornano prepotentemente in auge. Giusto per evitare di  sotterrarci tutti in un ‘Meta’ Verso gestito dai già troppo ricchi e non a favore dei già troppi poveri. Credo che riprendendo gli entusiasmi e le utopie degli architetti moderni del XX secolo, che se non altro ci hanno provato a lavorare in una direzione nuova e diversa, trasformando i loro ideali alle necessità dell’oggi, opponendosi fermamente a una logica per pochi, forse l’architettura tornerà ad essere una voce importante per la costruzione del contemporaneo.