Arte per la Vita
Guido Balsamo Stella, Napoleone Martinuzzi, Vittorio Zecchin
di Silvio Fuso
La Storia è stata lo strumento che, dopo il mito, l’uomo ha sempre usato per mettere ordine al flusso continuo degli eventi e dare senso e prospettiva alle proprie memorie. È quindi evidente che anche la Storia dell’Arte rientra in questo schema, se vogliamo in questa necessità, e corre gli stessi rischi che si presentano quando non si sottopongono le proprie convinzioni – la radice del proprio pensiero e dello stesso essere – a quella riduzione fenomenologica che è forse l’unico mezzo per una buona prassi interpretativa. Gli storici hanno a propria disposizione molti utensili: antropologia, sociologia, linguistica, scienza delle religioni, per citarne solo alcuni, in grado di evitare inconsapevoli coinvolgimenti ideologici così come semplici descrizioni o cronache dei territori da loro esplorati.
Non sempre gli storici dell’arte, e nella fattispecie quelli che si occupano di contemporaneo, ricorrono a queste preziose risorse. Al contrario, chi si rivolge all’arte Medievale o Moderna è in qualche modo obbligato a conoscere il pensiero, le credenze e i linguaggi degli artisti studiati. Guardare al contemporaneo può assottigliare i riferimenti, limitare le fonti, restringere insomma il campo visivo. Spesso il fenomeno è inevitabile: la crisi che ha investito l’uomo già nel XIX secolo stravolgendo fedi, ponendo dubbi, alimentando utopistiche illusioni, ha di fatto tagliato il collegamento che dovrebbe congiungere la tradizione con l’esperimento. C’è una parola che riassume quanto detto sopra: avanguardia. Come ci ricorda Jean Clair nella presentazione della quarantaseiesima biennale d’arte veneziana: “Che esista un’avanguardia, e che sia questa la pietra di paragone della creazione artistica, è un credo che nessuno osa contestare. Per una strana eccezione, per un curioso privilegio, l’ambito delle arti visive è l’unico che, a cent’anni dalla sua costituzione, non abbia ancora sottoposto a critica se stesso. È il solo ambito che nella critica del giudizio kantiano, situato tra sapere e sensibilità, rimanga terreno di opinioni, di diktat, di credenze, non di analisi e di ragioni. Una simile paura di pensare attiene forse alla natura singolare dell’immagine e al suo potere?”. Non sarebbe difficile delineare l’itinerario dei miti dell’avanguardia, gli autori prediletti, i suoi martiri, i movimenti “sommi e ineludibili”. Di certo possiamo affermare che, in questo grande affresco, l’arte italiana di fine XIX e poi del XX secolo ha trovato poco spazio e scarsissima considerazione. Non c’è infatti autore che non debba trovare fuori Italia influenze e suggestioni determinanti, opinione che vale anche per i nostri più grandi maestri; Germano Celant ha però invertito questa rotta sciagurata: “In un percorso di mezzo secolo, tutti questi elementi non sono incidenti irrilevanti proprio perché hanno come esito la dissoluzione di una storia già programmata, discussa e teorizzata, a cui il nomadismo e la molteplicità dell’arte italiana, una volta riletta e rivalutata nella sua totalità, può portare un contributo deflagrante. È qui che nasce l’ipotesi di un secolo dalla sostanzialità italiana”.
Dopo questa necessaria premessa possiamo renderci conto che, quando si voglia trattare dell’incontro, delle convergenze, talora dell’identità tra le sedicenti arti maggiori e le arti applicate (decorative, industriali, alto artigianato) in Italia, il quadro si presenti complicato e gli interventi storico-critici si collochino a diversi livelli per temi, modalità e valore. Noi non vogliamo aggiungere ulteriori analisi o storie a questo magma di considerazioni, ma riflettere su tre grandi protagonisti che – in Italia, a Venezia, a Murano – sono stati esempi fondamentali di ciò che può rappresentare un’arte offerta alla vita degli uomini: Vittorio Zecchin, Napoleone Martinuzzi e Guido Balsamo Stella. Pittura, scultura, grafica (il famoso bianco e nero di Pica) incontrano il vetro secondo coordinate spazio-temporali irriproducibili e inconfondibili. Vorremmo soffermarci sulla ricezione di questi straordinari fatti: sono stati davvero compresi? L’analisi storico-filologica è stata puntuale ed esauriente? Vi è stata sincerità, infine, nell’approccio?
Cominciamo da Vittorio Zecchin e forse dal primo equivoco. Nell’introduzione di Pica alla mostra del 1923, il maestro vi è descritto come un “laborioso, modesto e valente artista muranese” cresciuto tra le fabbriche di Murano e le prime esposizioni internazionali di Venezia: Toorop piuttosto che Klimt.
Questa impostazione si riverbera nel tempo, come in un ingannevole gioco di specchi. Soltanto nella primavera del 2017 un testo di Nico Stringa ricolloca su binari certi la figura artistica di Vittorio Zecchin: la formazione alla scuola di Ornato di Augusto Sezanne all’Accademia veneziana, l’approccio “progettuale” all’opera d’arte, le ricognizioni avvertite alle Biennali, le esposizioni di Ca’ Pesaro ed infine il suo riconoscimento come proto-designer. Ci piacerebbe far convergere qui le linee critiche che riguardano il lavoro di Zecchin, al fine di studiarne a fondo la formazione e collegarla alle prime frequentazioni e agli esperimenti giovanili a Ca’ Pesaro, e inoltre approfondire le ricognizioni alla Biennale per quanto riguarda non l’arte applicata ma i decoratori oltre a Toorop, l’ovvio Klimt, Munthe, Anglada-Camarasa, Golovin, e altri che potevano essere conosciuti dall’artista: spigherebbe questo forse la sua mancata esposizione come pittore alla Biennale?
Inoltre bisogna riconsiderare e comprendere la sua prima pittura simbolista, troppo affrettatamente attribuita all’influenza di Toorop ma nella quale non pare assente una eco neo-bizantina mediata dai russi.
Ci fermiamo qui per la formazione e i primi esperimenti ma, naturalmente, il capitolo vetro pone ben diversi interrogativi in quanto, e questo varrà per tutti e tre i nostri artisti, se ne sono indagati accuratamente soprattutto – e forse soltanto – alcuni episodi. Manca un’indagine precisa sui rapporti tra artisti e aziende nel Novecento, una sinossi insomma che tenga conto degli stili e dei linguaggi all’interno di percorsi che erano in fin dei conti produttivi e commerciali. Tornando ora a Vittorio Zecchin è chiaro che, oltre al pur fondamentale episodio Venini, dovremmo seguirlo passo passo in tutta l’avventura vetraria muranese, ricostruirla collegandola al tessile, al ricamo e all’arazzo.
Anticipando, in modo forse inappropriato, i risultati di queste auspicate indagini, crediamo emerga una figura inedita dell’artista, un decoratore “puro” che affonda le sue radici sia nel vissuto muranese che nel simbolismo internazionale respirato a Venezia, per poi condurle verso una polifonia linguistica e produttiva che identificherà il “modo italiano” sino a i nostri giorni. Metteremo però l’accento sulla “bidimensionalità” della decorazione di Zecchin (ecco la sua forte radice nella pittura!) e quindi potremmo considerarlo, con maggior precisione, un antesignano del graphic designer, un professionista dell’immagine coordinata, capace di trattare vetro, tessile, pittura, decorazione vera e propria in perfetta consonanza con la committenza, senza mai rinunciare alla peculiarità e originalità dell’ispirazione artistica.
I vetri soffiati con Cappellin e Venini e il grande ciclo Le mille e una notte dell’Hotel Terminus, denotano un’apertura tecnica e linguistica non comune, ma ogni lettura profonda delle sue opere non potrà più prescindere da quello che si suole chiamare catalogo generale delle opere di un artista, ma che, nel suo caso, come pure per gli altri nostri emblematici campioni, dovrà essere ben di più. Dovrà far confluire in un unico contenitore mondi diversissimi, tenuti insieme soltanto dal lavoro dell’artista. Un approccio del genere diventa necessario quando si consideri la vicenda più problematica e difficoltosa di Napoleone Martinuzzi: quello che in Zecchin si profila ancora “orizzontalmente” per Martinuzzi diviene “verticale”. La complessità delle sue relazioni e delle funzioni specifiche che egli viene ad assumere come uomo ed artista non sono facilmente riassumibili. Certo, si può benissimo dire che mancano assolutamente studi convincenti sulla scultura di Martinuzzi e che distinguere tra vetri e sculture è non soltanto fuorviante ma, in certi casi, francamente ridicolo; eppure una “riparazione” in tal senso non ci farebbe cogliere la “sfericità” di questo autore.
Gli anni Venti del trascorso secolo lo vedono di volta in volta nel cenacolo ristretto di D’Annunzio (doveva addirittura progettare il Monumento funebre per la Madre e per il Poeta), ed estensore nel 1922 di quella lettera al Comandante, firmata tra gli altri da Guido Cadorin e Brenno del Giudice, che rifonda il concetto stesso di arte e decorazione lasciando alle spalle le pur felici intuizioni prebelliche. L’asse Venezia-Gardone e l’asse Venezia-Milano vengono però complicati dalla vicenda romana riguardante la fondazione stessa della Quadriennale che vede Napoleone Martinuzzi insieme a Oppo, Carrà, Dazzi, Sarfatti e Soffici nel primo comitato organizzatore. Ci sembra qui che la chiave di lettura e il luogo dove indirizzare organici e completi studi su Martinuzzi sia quella dell’arte pubblica, della sua appartenenza a quel vasto movimento, non soltanto italiano, che dava un ruolo sociale produttivo ad ogni operare artistico, mettendo in guardia sia dai pericoli di una architettura soltanto funzionale che da quelli di un’arte privata sacrificata alle liturgie borghesi, agli intimi, riconoscibili sentimenti del singolo. Il Monumento ai Caduti di Murano è forse la testimonianza più commovente e convincente di questa intenzione realizzata, modello emblematico di una fusione perfetta tra costruire e immaginare. È tutto da ricostruire il percorso di questa grande figura di artiere, come direbbe d’Annunzio, poco noto, in parte schivo ma sempre presente laddove nascevano e prendevano corpo fermenti originali e fondamentali per l’arte italiana. Martinuzzi non distingueva tra dimensioni: le sue piccole sculture in vetro hanno la stessa forza ed energia della grande scultura bronzea del Pugile (1939), conservata a Ca’ Pesaro:
Gli angeli del ponte ai Giardini di Castello rimandano per vie nascoste ai suoi vasi collocati da Brenno del Giudice nelle nicchie del piccolo bar realizzato nel 1928 ai Giardini della Biennale. Si potrebbero portare decine di altri esempi, ma questo sarà il lavoro di approfondimento di altri, noi vorremmo soltanto che questo poco conosciuto scultore, ma amatissimo vetraio, trovasse davvero il posto e il luogo che gli competono tra le storie dell’arte del Novecento.
Ci resta il caso più arduo, il vero affaire: Balsamo Stella. È difficile trovare artisti come lui così importanti e fattivi eppure praticamente ignoti. La sua stessa biografia presenta poche chiarezze. Delle sue prime prove pittoriche conosciamo soltanto i titoli e non si conoscono i motivi del suo precoce trasferimento a Monaco di Baviera intorno al 1904; si potrebbe proseguire ma, fin d’ora, dobbiamo chiedere di approfondire le conoscenze biografiche di questo precoce “europeo”, un artista italiano che espone all’Esposizione Internazionale d’Arte del 1907 – quella del Sogno, per intenderci – comparendo curiosamente con lo pseudonimo di Sigurd Mateo Laila ma anche con il suo nome di battesimo: Guido Maria Stella. Ottimo candidato per ogni possibile italiana “ossessione nordica”, Balsamo Stella non è preso in considerazione neppure da Vittorio Pica, attento specialista del bianco e nero. Vien naturale la domanda se non sia stata proprio la sua appartenenza al mondo della grafica, considerata nonostante ogni contraria e volenterosa affermazione, un’arte davvero minore. Ma è proprio la grafica di Balsamo Stella ad offrirci le materie fondamentali, la sostanza, per un’analisi profonda della sua arte. Soltanto lo studio degli ex-libris, degli enigmi che contengono, varrebbe una pubblicazione, come ci ricorda Trentin nel catalogo della mostra a lui dedicata a Bassano del Grappa: “[…] l’Ex libris per Balsamo Stella sarà il pretesto e l’occasione per la possibile testimonianza, generalmente, sembra, non richiesta da coloro che poi, risulteranno essere i destinatari, del bisogno e dell’esigenza, così profondamente innati in lui, portati […] ad indagare nel processo di una particolarmente acuta, penetrante e raffinata capacità di analisi e di verifica nell’intimo segreto di un personaggio. Traendone, generalmente, come attraverso la sensibilità percettiva e intuitiva di una radiografia, ritratti d’impressionante verità, […]sentiti, senza alcuna compiacente concessione, nella complessa elaborazione della struttura di un linguaggio, in grado di considerarsi all’infuori, quasi sempre, di ogni retorica, nei valori essenziali di una sintesi preziosa e funzionale”.
Se poi entrassimo, come con un microscopio, nell’universo dei suoi paesaggi, delle sue fabbriche, delle sue visionarie città, dovremmo quasi pensare a una nuova figura d’artista a metà tra arti visive, letteratura e delirio onirico, e attribuirgli quel super-conscio immaginale cui fanno riferimento i vari scritti di Alberto Martini.
In Balsamo Stella è sempre prevalente l’approccio simbolico, la trasmissione attraverso stemmi ed enigmi di uno stato d’animo di un carattere, degli archetipi di una psicologia. Dei nostri tre artisti guido Balsamo Stella è certamente il meno sociale, il più introverso: più intimo che privato, più segreto che elitario; con questo potremmo concludere ma perderemmo i suoi vetri e la sua straordinaria figura di pedagogo delle arti, ricercatore e accanito sperimentatore di nuove tecniche. Sarà nostro compito cercare di comprendere come Guido Balsamo Stella possa essere passato dalle cupe incisioni di Das goldene Kalb (1914) e di Kriegs Jahr 1914 (1914), ai vetri “ruggenti” di Ragtime (1925) e Golf (1928) ma ancor più importante, cercare di recuperare, attraverso lo studio della sua attività di docente presso il Regio Istituto d’Arte di Firenze, la Scuola d'Arte di Ortisei in Val Gardena, l’Istituto Statale d’Arte di Padova prima e di Venezia alla fine ma soprattutto il triennio di dirigenza presso l’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza – definito dall’amico e collega Aldo Salvadori “avamposto dell’arte decorativa moderna” – il patrimonio da lui trasmesso ai giovani progettisti italiani degli Venti e Trenta, così da dar corpo agli auspici di Gio Ponti: “La fortuna della produzione moderna creata da Giulio Andlowitz per la Manifattura di Laverno, da Guido Rosso per i merletti di Jesurum, dal sottoscritto per le Manifatture Richard-Ginori, da Napoleone Martinuzzi per le vetrerie muranesi di Venini, dimostra come pur da noi questo intervento abbia di sé fatto buona dimostrazione e debba diffondersi. Ora vediamo con piacere che un altro ente industriale, la S.A.L.I.R. di Murano, si è accostato a un provatissimo artista che è noto e caro a noi e ai nostri lettori: Guido Balsamo Stella. Nessuna illustrazione meglio che quelle dei suoi vetri poteva accompagnare questo annuncio e affermare la nostra tesi; ed il suo nome, oggi che Balsamo Stella è chiamato a dirigere le Scuole dell’Istituto Superiore per le Arti decorative alla Villa Reale di Monza, è accompagnato da un’autorità diremo così ufficiale dalla quale non v’è che attendere felicissimi risultati”.