La Superficie Assoluta del Museo.

di Massimo Negri

Prima precisazione. Diciamo museo per comodità espressiva (parola corta), ma intendiamo spazio espositivo (locuzione efficace, anche se dal suono poco gradevole), cioè luogo univocamente dedicato al gesto espositivo. Precisazione necessaria, dal momento che il paesaggio domestico come pure quello pubblico sono intensamente modellati da pratiche ostensive, ma all’interno di un mix comunicativo dove le specificità dei luoghi tendono a sbiadire venendo piuttosto a costituire un continuum scenografico, sfondo dei nostri comportamenti. Questo, per lo meno, nel contesto urbano occidentale.   

M.B. Zurich 2015

Seconda precisazione. Dice la Treccani: Ostensione [dal lat. tardo ostensio -onis, der. di ostendĕre "mostrare"], lett. - [l'atto di mostrare, di esporre alla vista, spec. una reliquia in una chiesa: l'o. della Sindone] ≈ esibizione, esposizione. Ma il tempo in cui l’ostensione era prerogativa di un contesto sacrale è finito da parecchio, sicuramente dal primo Maggio del 1851, quando la Regina Vittoria e suo marito Alberto inaugurarono a Hyde Park la “Great Exhibition of the Works of Industry of all Nations”. Per questo spazio espositivo di nuova concezione - battezzato dal Punch: Crystal Palace - fu preso a prestito un modello molto inglese: la serra. E infatti il suo progettista, Joseph Paxton, era un giardiniere. Gli spazi dell’ostensione sono a loro volta uno stupefacente, voluminoso manufatto in mostra, e i quattro milioni e mezzo di visitatori di quella supermostra restarono certamente impressionati in misura eguale dal contenitore e dal suo contenuto. Anzi dalla superficie del contenitore innanzitutto: con una estensione ininterrotta di vetro mai vista prima, neppure nelle vetrate gotiche.    

M.B. Zurich 2015

Terza precisazione. Ai giorni nostri, questa pervasività espositiva va ben oltre i confini degli spazi dedicati. Stazioni ferroviarie, alberghi, ristoranti, caffè e saloni per la manicure, carrozze del metro, abitacoli di automobili, sale da bagno e palestre, cucine e aule scolastiche - oltre ovviamente a negozi grandi e piccoli, studi professionali, spazi del lavoro terziario, eccetera - hanno un vago sentore di show-room.  To show, appunto. Ciò che li tiene insieme, quanto ad esposizione, è innanzitutto una precisa categoria di exhibit oggi immancabile in qualunque contesto: gli schermi, e le loro sorelle maggiori (per dimensioni), cioè le superfici con quel minimo di requisiti che le rendano atte a proiettarci sopra.

M.B. Zurich 2015

E veniamo al museo.A tale processo di moltiplicazione e ripetizione infinita del gesto espositivo, inarrestabile e a volte brutale come l’avanzata dei pur benemeriti T-34 sul fronte russo, non si sottrae l’ambiente espositivo per eccellenza, cioè quello dei musei.

M.B. Zurich 2015

La superficie dei quali, tradizionalmente, è stata quella parietale a sua volta in via di superamento con pavimenti interattivi, soffitti non più esclusivamente “tecnici”, ma sempre più parlanti. E’ il museo immersivo, tendenzialmente Meta, nella accezione Facebookiana del termine. E’ il dipanarsi di una pellicola comunicativa che va ricoprendo tutti gli spazi disponibili con una sua peculiare avidità che trova nei pochi pollici dello schermo degli smartphone la sua bussola.

M.B. Zurich 2015

Tra la lampadina di Tesla e i primi LED a basso costo della Monsanto passano meno di cento anni, un soffio rispetto ai millenni di luce prodotta con combustibili naturali, ma sufficienti perché  la disponibilità di fonti di illuminazione artificiali di illimitato impatto sugli interni (giacché di questi stiamo parlando, quando parliamo di allestimenti museali)  si presenti tempestiva e ben attrezzata all’appuntamento con la proiezione digitale a grandissima o piccolissima scala, intendendosi qui per proiezione sia quella della trasmissione di una immagine, che quella delle diverse geometrie (elementare, ortogonale, descrittiva, eccetera). E la luce è certamente una superficie passibile della definizione di assoluta, sicché i confini tra pellicola digitale e superficie luminosa in uno spazio della esposizione sono praticamente impossibili a distinguersi, almeno sul piano della percezione. Questo nonostante concettualmente ed operativamente presentino invece una loro precisa autonomia, sia nella genesi che nel consumo.

M.B. Zurich 2015

Per complicare ulteriormente le cose, la evoluzione dei device digitali sta determinando in tutti gli ambienti umani il definirsi di un’altra superficie intangibile che è sempre esistita, ma che nuovamente conosce una pervasività e potenza mai sperimentata in precedenza. Chiamiamola per comodità: la sfera sonora (torneremo più avanti sulla sfera). Ancora una volta il processo consiste nel superamento dei confini dei luoghi deputati o comunque tradizionalmente considerati più consoni e nella diffusione della nozione di soundscape, in certa misura sviluppo di quella di “oggetti sonori”. Per i profani – come chi scrive – di grande aiuto è la quasi omonimia tra Pierre Schaeffer (con la sua musica concreta del 1948) e Raymond Murray Schafer (con il suo The Tuning of the World del 1977, da noi pubblicato con il titolo : Il paesaggio sonoro).

M.B. Zurich 2015

Qui si pone una contraddizione irrisolvibile tra il suono ambient e quello sorprendentemente preciso dei microfoni direzionali di ultima generazione, l’uno esclude l’altro in termini percettivi, e fin qui sembra facile, ma come scandire il succedersi dei “quadri” lungo il percorso espositivo? E come trovare un equilibrio sostenibile tra suono didascalico/documentario e potenza della musica comunque intesa? E ancora: accogliere oppure lasciare da parte brutalmente (ma forse coraggiosamente) la squisita (od orribile) individualità dell’ascolto in auricolare? Il manto sonoro, trapuntato più o meno fittamente e riccamente, sembra prestarsi alla definizione di superficie assoluta per la sua intangibilità e quindi adesione a tutte le possibili forme, ma forse è la dimensione più ostica da integrare nella esperienza della esposizione senza concorrere all’innescarsi di una Babele di linguaggi.

M.B. Zurich 2015

In attesa di essere archiviate come reperti di un mondo ancora tecnologicamente balbettante, le diverse generazioni contemporaneamente in scena nei musei (mai si è vissuto così a lungo, nel mondo occidentale) scivolano, oppure si incagliano, su queste superfici assolute aiutandosi con le abilità nel destreggiarsi su Internet. Il come è arduo a definirsi: persino la espressione californiana Surfin’ the Web è ormai desueta (dimostrandosi meno duratura della Surfin’ U.S.A dei Beach Boys, datata 1963 e pure ancora in vitalissima circolazione). Il che chiama in causa una superficie molto piccola e satura di impronte digitali che condiziona enormemente il nostro rapporto con l’intorno anche più remoto e, al contempo, costituisce una instancabile vetrina del mondo e dell’umanità perennemente in show, appunto. Si tratta dello schermo dello smartphone, la superficie assolutamente più assoluta che osa contraddire il punto fondamentale di Raymond Ruyer: “nessun essere può vedersi vedere”, come pure ascoltarsi mentre si ascolta. Ma siccome una superficie assoluta è anche infinita, è difficile resistere alla tentazione di riandare alle Sphären di Peter Sloterdijk e magari alle Spirali di Yeats:

Le spirali! Le spirali! Vecchio Volto di Pietra guarda: Non si possono più pensare le cose cui troppo a lungo si è pensato.

M.B. Zurich 2015

La parola Gyre significa spirale, ma anche vortice termine che bene si addice alla condizione attuale di chi sovente deve stare in equilibrio sulle superfici assolute del reale e dell’immaginario. Reale e immaginario: il dilemma eterno e ineludibile del museo.

M.B. Zurich 2015