Lina Bo Bardi: Luogo, uomo, cultura
architettura e antropologia
di Silvia Budai
Architettura e design, ma anche scenografia, cinema, attività editoriale e didattica. Sono le aree creative in cui ha operato Lina Bo Bardi, italiana che nel 1946, assieme al marito gallerista e critico d’arte Pietro Maria Bardi, decise di ricominciare una nuova vita in Brasile. Non capitò, lo scelse. Furono i suoi primi progetti a consacrare la sua fama di architetta brasiliana. In Italia, la conoscenza di Gio Ponti l’aveva portata a diventare co-direttrice di Domus, a collaborare con Stile e con altre riviste del settore, a cimentarsi nella scrittura. Ma sentiva la necessita di voltare le spalle a un dopoguerra molto sofferto e di inseguire la sua felicità accanto al compagno.
Oltreoceano l’obiettivo di ogni suo lavoro era la creazione di una cultura brasiliana autentica, in grado di valorizzare le proprie radici per far apprezzare la propria arte. Ma anche l’impegno sociale e civile: quella di Lina Bo Bardi fu un’architettura popolare, artigianale, rispettosa delle tradizioni. E allo stesso tempo innovativa, colta.
“Per un architetto, la cosa più importante è sapere come vive la maggior parte della gente”, affermava. L’architettura viene reinventata ogni volta che un uomo si muove nel suo spazio, sale una scala, alza la testa per guardare, apre o chiude una porta. Questa presa di coscienza per Lina arrivò quando era in Italia e vide che le bombe demolivano senza pietà le case dell’uomo. Fu allora che capì che la casa deve essere per la vita dell’uomo, deve servire, non essere mostrata.
Tra i suoi progetti più celebri si annovera la Casa de Vidro realizzata nel 1951 per sé e suo marito, completamente integrata nel paesaggio collinare circostante, in un quartiere della città di San Paolo. Un’idea che ricorda da vicino la Fallingwater di Wright, un’architettura in cui la natura entra negli spazi interni della casa. Architettura e natura diventano un tutt’uno. Uno scenario unico del teatro della vita, in cui nessuno dei due elementi domina sull’altro, ma si rapportano tra di loro in modo dialettico.
Nello stesso anno Lina Bo Bardi progettò, in soli due esemplari, il suo oggetto d’arredo più noto: la Bowl Chair, una seduta di forma sferica che poteva essere posizionata a piacimento sulla base senza incastri meccanici. La Bardi venne inoltre coinvolta nella ristrutturazione del museo di arte moderna di San Paolo (MASP), elevato a 8 metri sopra la piazza, diventata in seguito luogo di ritrovo per concerti ed eventi sociali di qualsiasi genere. L’edificio è dotato di ampi spazi aperti, pareti mobili o trasparenti. Tutti elementi che favoriscono il dialogo tra le persone. Il museo non solo come contenitore di opere d’arte, ma anche luogo per la gente.
Si occupò, inoltre, di conservare e restaurare edifici storici. Il suo ultimo grande progetto fu il SESC Pompéia (1977-1986), per il quale trasformò una vecchia fabbrica, un’area industriale, in una struttura adibita ad attività ricreative, culturali e sportive con teatri, biblioteche e laboratori artistici.
La fautrice del modernismo brasiliano è riuscita a creare un’architettura libera e inconfondibile. Partecipativa, sensibile alle questioni sociali e al passato come materia da rivivere venne apprezzata, finalmente, in tutto il mondo. L’approccio architettonico di Lina Bo Bardi viene accolto e abbracciato dai giovani architetti di oggi in maniera sempre crescente. In questo modo, la resistenza del “locale” si scontra con le forze dominanti della globalizzazione.
“...il passato e tutta la sua storia non devono essere buttati via. Il passato dovrebbe essere visto come un presente storico ancora vivo, che si pone il compito di forgiare un tempo presente reale diverso. Ciò che serve è la capacità di comprendere storicamente il passato e distinguere ciò che sarà utile per le nuove situazioni di oggi”
Lina, infine, oltre a essere il simbolo di un’architettura dell’uomo per l’uomo, è anche un’eroina femminile del mondo dell’architettura del XX secolo. Unicamente brasiliana, progettata in modo semplice e realizzata con materiali locali, la sua è stata ribattezzata “Arquitetura Pobre”, in assonanza al movimento italiano dell’arte povera.