La Grecia di Ghiorgos Seferis, canto per una nuova Itaca
di Michela Davo
Pensare alla Grecia significa, inevitabilmente, pensare al mare.
In un’intervista del 1963, Mario Vitti definì il mare simbolo, chiedendo a Ghiorgos Seferis che significato avesse avuto nel corso della sua esistenza. Il poeta, in risposta, sottolineò la natura esperienziale e non meramente simbolica di un mare che lo aveva anzitutto visto nascergli accanto: tempesta e quiete, in un colpo solo, tutta la vita umana: «[…] a volte, vicino al mare, dentro camere spoglie / con un letto di ferro, senza niente di mio […]», sono alcuni versi tratti da La casa vicino al mare (a loro volta daTordo), Seferis ammette di non ricordare molto delle case, soltanto qualche gioia e qualche lutto, la venuta (o la partenza) di qualcuno a cui il mare, lì accanto, sembra parlare di un’assenza di assolutezza che, anziché negare la soggettività dell’Io, la riconduce alla sua profonda uguaglianza con quella dell’Altro: senza niente di mio, senza più particolare, ma solo con lo sterminato mare dell’universale e la vita umana che si riattualizza incessantemente; i misteri della morte e della rinascita, considerati tra gli uomini così insondabili, sono, dopotutto, gli stessi di una rosa notturna: «[…] passasti come un ondeggiare / purpureo del mare… Così semplice è il mondo» (da Canto d’amore). Il mare di Seferis era il viaggio di Odisseo cantato da Omero («E racconta…vedo ancora le sue mani che sapevano saggiare / se la gòrgone a prua era ben scolpita / donarmi il mare blu senza onde nel cuore dell’inverno»da Su un verso straniero, Natale 1931), era la lingua greca, mutata ma sopravvissuta ai secoli, era la guerra, l’odiata dittatura dei colonnelli.
Cruciali, per la consacrazione della poesia greca del Novecento in Italia, sono state, in un primo momento, le figure di Giuseppe Ungaretti e di Filippo Maria Pontani. Le suggestioni del primo, ammiratore, ad Alessandria d’Egitto, di Kavafis, spinsero un giovane Pontani a tradurne le poesie e a inviare, per mano dello stesso Ungaretti, la traduzione di cinque poesie di un greco sino a quel momento ignoto, Ghiorgos Seferis (all’anagrafe Seferiadis), al gruppo di intellettuali che lavorava a La Rassegna d’Italia. Era il 1949 e, tra quei primi lettori, c’era anche Vittorio Sereni. La complicità tra i due poeti, ben indagata da Luciano Anceschi (si veda Sereni legge Seferis), si intuisce, fortissima, dalla dichiarazione di Sereni circa la sua convivenza con ilTordo («[…] perché in realtà una poesia non si legge, si convive con essa»da Letture preliminari). Pare quasi che dialoghi con Seferis, Sereni, quando scrive, nell’autunno del 1942, «[…] Così, distanti, ci veniamo incontro. / E a volte sembra / d’incamminarci, despinìs, nel sole / lieto anche ai vinti / nei giardini dell’Attica vivaci» (da La ragazza di Atene) e, ancora, sembrano quasi scritti a quattro mani quei versi da Italiano in Grecia, datati 1942, Pireo, «[…] Europa, Europa che mi guardi / scendere inerme e assorto in un mio /esile mito tra le schiere dei bruti, / sono un tuo figlio in fuga che non sa / nemico se non la propria tristezza […]». A differenza di Seferis, Sereni era un uomo lacustre, nato a Luino, sul lago Maggiore e approdato infine a Milano, passando per Brescia: nel suo percorso geografico c’è stato, a ben guardare, un curioso climax che lo ha visto allontanarsi dalle care acque raccolte in un bacino, con delle delimitazioni visibili per l’occhio umano («Sul lago le vele facevano un bianco e compatto poema / ma pari più non gli era il mio respiro / e non era più un lago ma un attonito / specchio di me una lacuna del cuore», Un ritorno) per giungere, attraverso il nesso bresciano di laghi (Iseo e Garda) e fiumi (principalmente il Mella), alla verticalità stretta dei Navigli milanesi, a un’acqua controllata e orchestrata artificialmente dall’architettura umana, conquistata, impresa che sembra impossibile a chi, invece, osserva il mare («Anche l’ora verrà della frescura / col vento che si leva sulle darsene / dei Navigli e il cielo / che per le rive s’allontana», da Diana).
Profondamente influenzato dai francesi, che studia assiduamente a Smirne e, poi, ad Atene e Parigi, estimatore di Eliot, sedotto da quel vascello fantasma di Poe che ritornerà ricorrentemente nel corso della sua vita e della sua poesia («[…] Le tue mani avevano sempre un moto verso il sonno del mare / carezzando il sogno che risaliva calmo la ragnatela d’oro / portando nel sole la massa delle costellazioni / le palpebre chiuse, le ali ripiegate…» da Raven, Corizza, inverno 1937), Seferis si scoprì vincitore del Nobel nel 1963, ancora poco noto ai più, quasi già scordato, come quasi dimenticata era oramai la Grecia, madre fondatrice della parola occidentale: di lei si ricordavano i miti, i poemi omerici, la tragedia e, poi, il silenzio assordante di secoli di letteratura successiva. In uno dei due discorsi tenuti durante l’occasione del conferimento del premio Nobel, Seferis ricorderà la madrepatria («Io appartengo a un piccolo Paese. Un promontorio roccioso nel Mediterraneo, che niente contraddistingue se non gli sforzi del suo popolo, il mare e la luce del sole.») e, in quel suo modo sempre cordiale, a tratti lascivo, narrerà – questa volta non cieco – la grande lezione greca all’uomo occidentale («[…] Edipo incontrò la Sfinge che gli pose l’indovinello, la sua risposta all’enigma fu: “L’uomo”. Quella semplice parola distrusse il mostro. Noi abbiamo molti mostri da distruggere. Ripensiamo alla risposta di Edipo»). Erano la guerra fredda, Francisco Franco caudillo, un’Algeria da poco indipendente, ma con il sangue versato ancora fresco, e Seferis voleva, forse, lanciare un appello, scongiurare una nuova Iliade, che si potesse porre fine, nella sorte mediterranea, a quel sentire «[…]messaggeri venuti ad annunciare / che tanta sofferenza, tante vite / sono finite nell’abisso / per una camicia vuota, per un’Elena» (da Elena).
Sosteneva, Seferis, che, per poter fare poesia, fosse necessario non essere poeta di mestiere, bensì occuparsi d’altro. Il manto della sua carriera diplomatica, come quello delle rovine del Partenone, assume allora un senso, in questa concezione, in quanto ricopre, proteggendolo, il fuoco di quella grecità onnipresente, pervasiva, marmorea, di cui, insieme a Ritsos ( e a quella sua «[…] Grecia in ogni istante in ogni luogo») e agli altri si è fatto portavoce in un Novecento mediterraneo dimentico delle sue radici arcaiche. Lo ha fatto alla maniera delicata dei greci, apparentemente narratori di una civiltà scomparsa, sciogliendo l’aufheben hegeliano: affermando non la necessità di superare, ma soltanto quella di mantenere, non per rinunciare a un’evoluzione, ma per raccontare il miracolo di una lingua che, confinata tra il mare e le rocce, parlata da una piccola popolazione che è stata celebre, un tempo, per non esserlo più in quello a venire, è riuscita a resistere ai secoli, alle invasioni straniere, tornando sempre a quella risposta data da Edipo alla sfinge: non dimenticando mai l’uomo.
«[…] Esteriormente, Eleusi può sembrare diroccata, un rudere del passato; in realtà è ancora intatta, e siamo noi i ruderi, la ruina dispersa, sbriciolata in polvere. Eleusi vive, vive eternamente in un mondo agonizzante. L’uomo che ha colto questo spirito di perennità onnipresente in Grecia e che ne ha pervaso la sua poesia è Giorgio Seferiadis, il cui nome di battaglia è Seferis.», sono parole di Henry Miller, tratte da Il colosso di Maroussi, ricordate da Vittorio Sereni.