Immagine di città: San Francesco della Vigna
By Maurizio Barberis
“…E facciami essi un Santuario, ed io abiterò in mezzo a loro. Fatelo interamente secondo il modello del Tabernacolo, e il modello di tutti I suoi arredi, che io ti mostro…” ( Esodo, 25. 8/9)
“ …Volendo dunque nui fabricar la Chiesa, havemo a riputar cosa necessaria et elegantissima a seguir quest’ordine, havendo per maestro et authore il somm’architetto Iddio: il quale volendo instruere Mosè della forma et proportione del Tabernacolo, che egli havea a fare, li diede per modello la fabrica di questa casa mondana, dicendo? Guarda et fà secondo l’esemplare, che ti è mostratto nel monte. Il quale esemplare, secondo l’openione di tutti li saggi, fu la fabrica del mondo..” ( dal Promemoria di Francesco Giorgi per san Francesco della Vigna)
Giovane studente, iscritto alla Facoltà di Architettura, mi trovavo spesso a vagare per molte ore in esplorazione di quel labirinto urbano che è la città di Venezia. Ma, fatalmente, ogni volta, quasi guidato da una mano nascosta, mi trovavo di fronte alla maestosa facciata palladiana della chiesa di san Francesco della Vigna. Un chiesa strana, un insieme di luoghi, di oggetti dall’incredibile fascino auratico. Il 15 agosto 1534 Andrea Gritti, suprema autorità veneziana, pose la prima pietra di questo edificio, pensato sulla base di un progetto di Jacopo Sansovino.
Ma sorse immediatamente un problema, legato, a mio parere, ad una certa sacralità del luogo, già confinante con un antico cimitero veneziano. “Sarà il Sansovino all’altezza del compito?” pareva chiedersi il Doge. Così, per non saper ne leggere ne scrivere, il Gritti si rivolge ad un frate del convento, Francesco Zorzi, che già nel 1525 aveva pubblicato un dottissimo e platonicamente sulfureo libello, ‘De Harmonia mundi totius’, che una certa fama aveva garantito all’autore presso quei circoli eruditi degni della veneziana schiatta.
Sicché il fraticello, che già abitava presso il convento cui sarebbe stata dedicata la nuova chiesa, venne incaricato di redigere una memoria, che, riprendendo le questioni del suo primo scritto, donasse all’opera quella dignità che il luogo e l’ora richiedeva. Francesco stese dunque un progetto basato sull’idea della consonanza, ovvero sulla relazione tutta rinascimentale tra tempo e spazio. La Tetractys pitagorica, il Timeo platonico, vengono piegati al servizio di questa nobile causa, e il frate ha gioco facile nel dimostrare la piena corrispondenza di diapason e diapente con le dimensioni armoniche dell’erigendo spazio sacro del tempio.
Bisogna ricordare qui che architettura, pittura e scultura erano ancora considerate arti manuali e non facevano parte del classico quadrivium, matematica, geometria, astronomia e musica, le sole arti che potevano essere considerate degne di essere praticate dall’erudita nobiltà veneziana.
Quindi l’opera di Francesco sposta in alto l’asticella del gusto, aggiungendo nuova linfa alle arti che divengono così ‘nobili’ a tutti gli effetti. In odore di magia, teurgica per la precisione, con un preciso riferimento alla cabala ebraica e cristiana, la Memoria viene presentata al giudizio, per essere approvata, di tre ‘esperti del settore’: un pittore, un architetto, un umanista. Mica gente qualsiasi, tant’è che a dare testimonianza del suo scritto vengono chiamati il Tiziano, Sebastiano Serlio, a Venezia per preparare la sua opera sull’architettura, e quindi considerato un’autorità nella teoria architettonica e Fortunio Spira, che Sansovino chiama ‘filosofo celeberrimo, di profonda scientia’.
Naturalmente la memoria viene approvata, a dimostrazione che quel tipo di cultura magico teurgica non era del tutto negletta nella capitale adriatica, e lo Zorzi mette come chiosa finale al suo scritto che le divine proporzioni della pianta vengano riportate in tutto e per tutto sugli ordini della facciata: “…Resta ultimamenti a parlare del frontale, il qual desiderio sii nullo modo quadro, ma corrispondent’alla fabrica dentro. Et che per esso si puosi comprendere la forma della fabbrica, et le suoe proportioni. Acciò che di dentro, et di fuori sii tutta proporzionata…” Divine proporzioni basate sul quadrato e sul cubo di tre, e cioè rispettivamente 3-9-27. E sul numero 27 si dovrebbe spendere più di una chiosa, visto che il numero è significativamente collegato alla Shechina ebraica, ovvero alla dimora mistica della divinità (vedere il saggetto di William Melczer dedicato ad ermetismo e cabala cristiana nel pensiero di Francesco Zorzi).
27 è anche il numero prediletto dal Palladio per la disposizione armonica delle sue architetture, cosicché avrà gioco facile nel riprendere le misure della pianta e applicarle alla bella facciata in pietra d’Istria.
Facendo correre la fantasia (anche questa serve, a volte, per giudicare l’effettiva bellezza di un complesso come questo) ci verrebbe da pensare ad uno spazio di ‘soglia’, ad un confine virtuale tra la vita e la morte, un luogo sorpreso dalla presenza antica della divinità.
Ciò che infatti caratterizza il chiostro maggiore della chiesa è una strana pavimentazione, fatta di lastre tombali fittamente accostate, che donano all’architettura una strana aura fatata. Sembra quasi che pur di avere un posto in quel luogo i nobili veneziani fossero disposti a lunghe liste d’attesa, stringendosi anche un po’. Per non parlare del Campo a Fianco della Chiesa di San Francesco, dominato da una serie di grandi cipressi, piante decisamente ‘monumentali’, e che si chiude con un piccolo edificio, appartenuto ad una confraternita, laddove l’arco del portale è sovrastato da un piccolo e ben disegnato teschio in pietra. E’ forse uno dei pochi luoghi a Venezia dove si crea una sottile risonanza tra lo spazio interno della chiesa, dell’intero complesso monumentale, e lo spazio esterno del campo, che, dapprima acquisisce percettivamente la dimensione di un ‘oggetto’ (e non di un vuoto), e poi, successivamente, quella di un soggetto attivo nell’aiutarci a comprenderne la sacralità. Protagonista di un tempo sospeso.
Di recente si è avuto sentore di un progetto per realizzare a Venezia, nell’area prospiciente alla chiesa di San Francesco della Vigna, nell’area degli ex gasometri di fronte ad essa e al campo San Francesco, un super Hotel, un nuovo formicaio veneziano, ( che si aggiungerebbe a quelli già realizzati qualche anno fa a Mestre), per la gioia dei pochi residenti rimasti, che, come gli indios amazonici, avrebbero il dovere/diritto di tutelare l’integra dignità della città da mani straniere, per proteggerla da devastanti e improvvisate ‘Rennovatio Urbis, per poterla mostrare, testimoni dell’antica saggezza, ai nostri figli e ai figli dei loro figli, nello stesso identico modo in cui noi abbiamo avuto la fortuna di poterne godere.