Bernardo Bellotto

Attimi di quotidiana fantasia

by Luca Violo

Bernardo Bellotto, Il Castello Sforzesco, 1744, (Oslavou, Castello di Namest, Repubblica Ceca)

Bernardo Bellotto, Il Castello Sforzesco, 1744, (Oslavou, Castello di Namest, Repubblica Ceca)

Tersa ed immobile è l’atmosfera che alligna nei paesaggi di Bernardo Bellotto, come se ogni dettaglio, architettonico ed umano, fosse regolato da una curiosità selettiva che scompone la realtà in equilibrate porzioni di verosimile artificio, che colgono con impeccabile precisione prospettica gli armoniosi capricci della ragione, unica giudice capace di comporre con naturale maestria vuoti e pieni, ombre e bagliori, cose e persone.

Un’attenzione allo spazio scandito dalla luce che prende le mosse dalla commovente realtà di corpi ed anime del Caravaggio, ma che solo dal 1625, con le vedute di Viviano Codazzi realizzate secundum veritatatem, diviene genere pittorico, e trova nella Roma barocca il suo apogeo, con il nordico ed atmosferico sguardo del Vanvitelli e la luminosa grandiosità spaziale di Giampaolo Panini.  È verso questa tradizione che Canaletto e più tardi il nipote Bernardo Bellotto si muovono, mettendo a punto una sofisticata tecnica della veduta, che oltrepassata l’architettura intesa come geometria dei solidi e teoria delle ombre, diviene percezione sensoriale ed intellettuale, souvenir d’Italie, e raffinata proiezione illuminista dei viaggiatori inglesi del Grand Tour. Sono proprio gli ‘scarabacchi’ a mano libera e l’uso spigliato della camera ottica – capace di proiettare attraverso un complesso gioco di lenti un’immagine al naturale – che portano Canaletto ad elaborare una maniera dove vero e verosimile divengono strumenti di un viaggio della mente, esatta sintesi altamente fantastica di un’illusione reale che assurge a verità pittorica. Lo sguardo di Bernardo Bellotto è vitreo ed avvolgente, attento a percepire le emergenze luminose attraverso le cave d’ombra. La luce, intensa e fredda al tempo stesso, crea un effetto ‘giorno’ al chiaro di luna, cieli limpidi, e un sole invisibile basso all’orizzonte. Una meticolosa conoscenza toponomastica del soggetto, unita ad un assoluto controllo della composizione, conducono l’artista verso un approccio proto-fotografico della realtà, come attimo colto dal quotidiano e reso immortale. Le ombre lunghe costruiscono il rapporto dei volumi nello spazio, e il ‘bello costante’ bellottiano, non più valore puramente atmosferico, si eleva a dottrina filosofica e spirituale.

Bernardo Bellotto, Veduta di Villa Perabò poi Melzo a Gazzada, 1744

Bernardo Bellotto, Veduta di Villa Perabò poi Melzo a Gazzada, 1744

Un carattere che emerge già nelle undici opere padane del giovanile viaggio di formazione datato 1744, che oltre le celeberrime vedute di Gazzada, gemme adamantine di un profondo nord che paiono anticipare gli struggenti freddi spirituali di Caspar Friederich, comprendono tre rare vedute milanesi: Il Castello Sforzesco (Oslavou, Castello di Namest, Repubblica Ceca), Le Chiese di San Paolo Converso e di Sant’Eufemia (collezione privata), e il Palazzo dei Giureconsulti e il Broletto Nuovo (Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco), che con scrupolosa precisione fotografica descrivono un Settecento architettonico della capitale lombarda conosciuto in Europa soprattutto attraverso l’ampia circolazione delle incisioni ad acquaforte.

L’ampia spianata d’armi del Castello Sforzesco, affollata di dame e gentiluomini affaccendati nelle loro facezie pomeridiane, è ripresa dal lato opposto della Torre del Filerete, con una prospettiva ampia e trasparente, capace di rendere spassosa e vivace ogni singola scena, anche la più lontana, di cui si può solo intuire l’impercettibile mormorio. L’inquadratura è cinematografica nell’effetto grandangolare, come se un dolly si fosse appena fermato dopo una lenta ‘carrellata’ panoramica. Bellotto con leggera maestria guida lo spettatore ad una ritmica sequenza di visioni, fatte di linee, punti e colori prospetticamente disposti; la pennellata è veloce e sicura nel definire volumi e figure, capace di costruire una sintassi che è al contempo ottica e narrativa, canalettiana e profondamente propria.

Bernardo Bellotto, Le Chiese di San Paolo Converso e di Sant’Eufemia, 1744, Collezione Privata

Bernardo Bellotto, Le Chiese di San Paolo Converso e di Sant’Eufemia, 1744, Collezione Privata

Un linguaggio stilistico che meglio si definisce nella raccolta veduta delle Chiese di San Paolo Converso e di Sant’Eufemia, dove i muri di cinta fungono da veloci e funzionali punti di fuga, elementi d’abbrivio per uno spettacolare gioco prospettico, che vede protagonisti il vuoto pieno dello spiazzo, vissuto e animato in orizzontale, e il pieno vuoto delle architetture, superbamente cadenzato in verticale. La parete sulla destra, bruna e macchiata di calce, sembra un dettaglio che anticipa lo stupore cromatico del Corot romano, capace di trattenere la luce dorata della Città Eterna. La facciata della chiesa di Sant’Eufemia, barocca e bianco vestita, frontale rispetto al punto di vista, è ricamata da Bellotto come un pizzo di luce ed ombra, la stessa che si posa sul lato orientale di San Paolo Converso e che definisce buona parte della scena di destra attraverso improvvise lingue di chiarore, premessa della maniera matura dell’artista. La semioscurità è infine la protagonista assoluta della veduta del Palazzo dei Giureconsulti e del Broletto Nuovo, struggente simulacro di una modernità che nelle vibranti mani dell’artista diviene emozione prospettica, pura elegia visiva. Lo scorcio del Broletto sulla destra, con l’ossessiva successione di mattoni rossi abbacinati da una morbida luce autunnale, è un pezzo di realtà così sublime nella sua asciutta crudezza, che solo la malinconica memoria di un fotogramma può oggi raccontare.

Bernardo Bellotto, Palazzo dei Giureconsulti e il Broletto Nuovo (Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco)

Bernardo Bellotto, Palazzo dei Giureconsulti e il Broletto Nuovo (Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco)

L’alfabeto di Bellotto scrive abissali ed immobili spazi, dove natura e fantasia, colore e prospettiva, sono il fulgido riflesso di una ragione, che non cerca più l’esattezza delle proporzioni ma un sistema di deformazioni, coerenti e necessarie, capaci di scrivere le mute parole dell’anima.