…or without matter?
by Silvio Fuso
Lasciando da parte la questione di quando sia nata la ‘consapevolezza’ del paesaggio chiediamoci invece cosa significhi davvero, quale esperienza incarni il paesaggio prima nella pittura e poi in fotografia.
Domande eccessive, argomento gigantesco e complesso, par quasi uno di quei dilemmi filosofici che hanno attraversato la storia dell'occidente.
Erano paesaggio i giardini edenici delle Vergini medievali? E il temporale metaforico della Tempesta rappresenta forse l'avvio di una secolare stagione simbolista?
Domande eccessive! Di certo il paesaggio, naturale o abitato, è inevitabile; soprattutto quando non sembra il protagonista dell'opera: provate a cancellarlo dalla pala di Castelfranco di Giorgione (non a caso) e sparirà gran parte dell' arte otto e novecentesca.
L'esperienza del paesaggio è l'esperienza stessa del mondo: di quello visibile, detto reale, e dell'altro, quello intimo, dello spirito.
Ma, comunque, visione e appartenenza: inscindibili.I grandi seicentisti europei hanno introdotto la Stimmung nella pittura di paesaggio, hanno infuso nella teatralità mitologica del gran secolo una traiettoria psichica, un fremito segreto.
Il dettaglio, lo sfondo delle antiche opere è balzato in primo piano: storia, mitologia, religione sopravvivono a patto di immergersi nella "piena" dei fenomeni; la grande crasi dell'Ottocento incombe.
È d'obbligo una ritardata premessa: non intendo parlare dell'esperienza del paesaggio con cautela filologica, ma affermare assieme ad Angelo Conti, paladino del simbolismo italiano, l'unicità di pittura di paesaggio e arte moderna. Senza altri soggetti, temi o propositi eccezion fatta per l'altro grande ‘luogo’: il ritratto, l'effige dell'uomo.
Comprendiamo profondamente, a questo punto, perché von Kleist vivesse "il Monaco" di Friedrich non nel quadro, ma nello spazio tra lui stesso, spettatore, e la tela. La soglia di cui parla Barberis nel precedente intervento? Il silenzio meditativo gravido di tutte le immagini? Forse il primo romanticismo ci porta troppo in là: Turner, Friedrich, Hölderlin e Novalis aspettano ancora una nostra, adeguata, risposta. Intanto abbiamo bisogno di essere ricondotti al nostro mondo, di trovare un mallevadore e un amico.
Esattamente a metà del 1800 Corot inventa la pittura della memoria: il sentimento del ‘SOUVENIR’ ci riconduce a noi stessi, i ricordi rappresentano solo un frammento nella pittura romantica devota ai grandi temi collettivi o identitari, ma diventa la via obbligata per la successiva equazione tra paesaggio e stato d'animo (Amiel & figli ).
Difficile superare il miracoloso equilibrio di "Souvenir de Mortefontaine", pare quasi una messa in pittura dell'alchemica atmosfera delle "Affinità elettive", in bilico tra idillio e catastrofe. E a proposito dell'alchimia non si può dimenticare il Cliché Verre: strano e ibrido processo di pittura fotografica che appassionò Corot, i fedeli di Barbizon e un gruppo di giovani fotografi. In qualche modo il contrario del successivo pittorialismo: dare al sogno dell'artista, all'invenzione i mezzi della chimica e il lavoro della luce. Un matrimonio tra scienza positiva e audacia romantica per correre invece oltre le ristrettezze del visibile.
E adesso un balzo temerario; bisogna lasciare la pittura, rinunciare alle vaste promesse dell'imminente simbolismo e chiederci come la fotografia sia divenuta cruciale per una nuova identificazione del paesaggio, e io dovrei riuscire a motivare la mia opinione che alla fine proprio questo mezzo giovane e un po' imbarazzante nelle sue pretese (diciamolo) abbia offerto le migliori immagini del GIARDINO/PARADISO e sia arrivata poi allo SPIRITUALE (nonostante Baudelaire).
Direi che le sperimentazioni di Henry Peach Robinson ci mettono sulla strada giusta, esempio di come coniugare al meglio risorse della realtà e manipolazioni dell'arte; capiamo che la nostra relazione con l'immagine non può prescindere da un legame fisico-oggettivo, ma non deve altresì rinunciare alla trasformazione impressa dall'autore. Primi passi. Poi Atget, Stieglitz icone ormai osannate, arruolati a torto tra le truppe delle avanguardie e indicati come precorritori della solita, stucchevole "arte contemporanea": in verità sono i due artisti che hanno consegnato la lingua della fotografia al simbolo.
Non è l'anticipazione della surrealtà a far grande Atget né la supposta astrazione degli EQUIVALENTS a innalzare Stieglitz, no, ancora una volta è stato l'incontro tra la pratica minuziosa della loro arte e il mistero dello sguardo intuitivo. Parigi e le nuvole, inedite frontiere del paesaggio e nuove ‘case’ dove prendere, finalmente, dimora.
Dopo questi traguardi la fotografia, soprattutto quella americana, diverrà un potente strumento di esplorazione estetica: a ondate successive gli autori statunitensi daranno vita all'unica vera alternativa al glamour artistico, alla deriva feticistica del mercato. Una concezione austera del paesaggio accomuna artisti diversi per tempo e ispirazione: la città, la natura, la società rivelano nelle immagini di Evans, Weston o dei ‘nuovi topografi’ la mistica del dettaglio, il prevalere, sapiente, del caso e, a tratti, la presenza folgorante dell'invisibile.
Attenzione però, il manierismo è in agguato: lo sguardo casuale può farsi moda, la passione per il residuo, lo scarto, strizzare l'occhio al cosiddetto impegno o all'invadente concettualità e il rigore divenire alibi per lo spudorato edonismo fotografico di questi anni. Il futuro è nel passato: i minuscoli cavalieri della pala di Castelfranco, le ninfe danzanti di Corot, i viandanti senza volto di Friedrich, ci impongono una riflessione; il linguaggio della fotografia deve di nuovo complicarsi riprendere l'annosa sfida con la pittura.
Il simbolo si allontani quindi dalla pura registrazione dello ‘shining’ (inarrivabile Eggleston) e rivesta ancora una volta la carne imperiosa del mito, suggello e garanzia dell'efficacia immaginale.