La funzione del museo. Nulla sarà come prima?

by Antonio Natali già Direttore delle Gallerie degli Uffizi, Firenze

Galleria degli Uffizi, Tribuna, Firenze (dettaglio della decorazione della finestra). Foto Antonio Quattrone 

Galleria degli Uffizi, Tribuna, Firenze (dettaglio della decorazione della finestra). Foto Antonio Quattrone 

Con l’affievolirsi della malignità d’un morbo che ha costretto all’isolamento forzato, la vita attiva, sia pur cautamente, riparte. In quasi tutte le sue espressioni. E a chi abbia a cuore il patrimonio storico e culturale del nostro Paese riuscirà gradita la riapertura dei musei; che avrà suoni diversi a seconda della disposizione ideologica d’ognuno. Ci saranno quelli che non penseranno a nient’altro che al conseguente ritorno economico (certo nient’affatto disprezzabile) e ci saranno quelli che godranno della possibilità di tornare finalmente a leggere dal vivo i testi poetici (dall’antichità ai giorni d’oggi) su cui si sono formate generazioni di giovani. Sono – com’è facile capire – due concezioni molto differenti di museo, che dovrebbero però conciliarsi in un’unica visione politica nelle menti di coloro che sono preposti al governo del patrimonio medesimo. Io, che sono stato chiamato a dirigere per una decina d’anni un grande museo, ho sempre badato a gestire le imprese dell’istituto ricorrendo a capitali di mecenati generosi e cercando di gravare il meno possibile su un’amministrazione centrale che prima, a vero dire, non era così prodiga di finanziamenti come ora. Nel contempo però ho sempre coltivato il pensiero che la tanto decantata ‘valorizzazione’ non debba contemplare soltanto un’interpretazione finanziaria, giacché è mia convinzione che ‘valorizzare’ significhi principalmente dare valore culturale a un bene che non l’abbia mai avuto, o restituirlo a un bene che l’abbia perduto: operazioni che, oltre tutto, se condotte con estro e lungimiranza, portano anche quei vantaggi economici che per forza stanno a cuore. Mai comunque ho minimamente dubitato che la funzione d’un museo sia segnatamente quella educativa.

Galleria degli Uffizi, Tribuna, Firenze (dettaglio della cupola). Foto Antonio Quattrone 

Galleria degli Uffizi, Tribuna, Firenze (dettaglio della cupola). Foto Antonio Quattrone

Idea – questa – che, in una stagione già afflitta da un conformismo volgare e ora turbata anche da una piaga epidemica, convincerà chi governa d’aver fatto proprio bene a ‘svecchiare’ le strutture museali. E potrà cavare – costui – ulteriore conforto alla necessità delle sue risoluzioni ‘innovative’ dall’evocazione di queste parole da me impresse in un’epigrafe ideale, ma pronunciate addirittura nel 1777 da Giuseppe Pelli Bencivenni (illuminato direttore degli Uffizi): “Nell’educazione dei giovani dovrebbe entrare un’ostensione di statue, delle pitture e delle altre rarità che sono depositate alla R. Galleria [degli Uffizi] e l’occhio si avvezzerebbe a trovare il bello ed i ricchi s’invoglierebbero di un lusso nobile che varrebbe più della magnificenza nelle livree, nei cavalli e in tante altre frivolezze, che sono esterni ornamenti di parata per abbagliare il volgo, ma che non portano a presunzione di cultura in coloro che se ne investono”. Se alle livree e ai cavalli si sostituiscono gli abiti firmati e le auto costose, questa frase sarà attualissima. E attuale suonerà pure l’“abbagliamento del volgo”, che allora si praticava con “esterni ornamenti di parata” e oggi s’esercita ricorrendo a ruffiane formule populistiche e a slogan autopromozionali diramati dai musei e divulgati da una stampa ch’è per lo più servile.

Galleria degli Uffizi, Tribuna, Firenze (dettaglio della finestra). Foto Antonio Quattrone 

Galleria degli Uffizi, Tribuna, Firenze (dettaglio della finestra). Foto Antonio Quattrone

Il monito di Pelli Bencivenni è di due secoli e mezzo fa, ma l’etica che n’è sottesa è sempre viva. E parimenti vivo è l’invito a frequentare gli Uffizi non solo per ascoltare le voci dei grandi che vi albergano, ma soprattutto per prendere dimestichezza col “bello”, così da saperlo poi riconoscere in ogni frangente della vita. “Bello” che ora dev’essere inteso anche come gusto, come coscienza storica, come nozione della dignità del proprio passato. Museo, dunque, come spazio di crescita morale. Noi pure, oggi, ameremmo che la frequentazione dei luoghi della poesia rimediasse all’assidua trivialità delle immagini e delle parole che si rovesciano sui giovani. Ma la strada imboccata di recente va proprio nella direzione opposta.