Alessandro Mandini: che sia l’arte ad indirizzare il nostro domani

di Luca Violo

 

Un maestro, qualunque sia l’ambito delle proprie ricerche, è colui che come una pianta germina idee che si propagano attraverso le generazioni perché primigenie a se stesse, capaci di incidere profondamente nell’approccio metodologico di una disciplina. Alessandro Mendini, maestro indiscusso del design italiano, felice cantore di forme e colori che arredavano gli spazi della nostra contemporaneità presente e passata, ci ha lasciato il 18 febbraio 2019. Era l’11 maggio 2011 quando con garbata disponibilità dedicò un frammento del suo prezioso tempo a raccontarsi in questa intervista toccata da una profonda leggerezza, che come dice Italo Calvino “non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”.

Alessandro Mandini, Valigia per l’ultimo viaggio, cast in aluminium, manifactured by Bracciodiferro for Cassina, 1975

Alessandro Mandini, Valigia per l’ultimo viaggio, cast in aluminium, manifactured by Bracciodiferro for Cassina, 1975

Come Atelier Mendini definite il vostro lavoro un flusso continuo di sensazioni, immagini, idee, un puzzle in divenire dove raggiungere la sintesi è un fine utopico, ma fondamentale per la ricerca continua di dimensioni sempre più perfette e fra loro contrastanti, una persistente ed eterna progressione verso l’impossibilità di raggiungere la perfezione. È questa la costante su cui si definisce l’Atelier Mendini?

Alessandro mendini, Mendinigrafo, drawing instrument, Manifactured by Alchimia, 1984

Alessandro mendini, Mendinigrafo, drawing instrument, Manifactured by Alchimia, 1984

Nel lavoro che facciamo, che io faccio, c’è una sorta di diversificazione di temi e di interessi, in quanto siamo coinvolti in tipologie molto, molto differenti fra loro, addirittura contrastanti, come può essere una casa piuttosto che una decorazione o una scultura o le immagini per un sito, pertanto l’approccio è mentalmente eclettico, come fosse basato non su forze centripete, bensì su forze centrifughe in fase di espansione. Tutto ciò è dispersivo e faticoso, perché se vogliamo lavorare con attenzione sulle singole attività, ognuna di queste è una disciplina e pertanto ha delle tecniche e delle regole che è necessario conoscere alla perfezione. Ciò avviene ad esempio con i materiali, perché operare col vetro soffiato, con la fibra di carbonio o col legno ricostituito, e al tempo stesso giungere a risultati soddisfacenti e precisi all’interno di questi diversi materiali, l’approccio deve necessariamente avere anche un retroterra di specializzazione. Per cui il nostro metodo di lavoro è da un lato dilettantistico – perché aperto a esperienze variate – dall’altro disciplinato da regole che dobbiamo conoscere e per le quali molto spesso ci appoggiamo all’esterno. Non tutto quindi nasce e si realizza interamente in atelier, ma ci sono oggetti per i quali ci avvaliamo anche di diversi collaboratori esterni. Ciò vale anche per l’aspetto creativo, che non pretendo si concluda all’interno della mia testa, oppure all’interno del mio gruppo di lavoro, ma piuttosto in una sorta di ping-pong con altri autori molto noti o completamente ignoti.

Alessandro Mendini, Casa della felicità, living-romm, with fireplace design by Ettore Sottsass jr

Alessandro Mendini, Casa della felicità, living-romm, with fireplace design by Ettore Sottsass jr

Nella stessa parola atelier c’è un tentativo di coralità che implica una specie di metodo di lavoro artigianale, da bottega, al quale tengo in modo particolare. Pertanto, la misura dei professionisti che possono interagire, lavorare e parlare con facilità ogni momento al di là delle gerarchie, non deve mai superare a mio giudizio le 12-15 persone, perché quando il gruppo aumenta diventa gerarchico e quindi molto più difficile da gestire. Per cui qui vige la chiacchiera che mi sembra un metodo fondamentale di generare idee. Se poi parliamo di linguaggi ai quali sono sempre stato affezionato e interessato, sono linguaggi prevalentemente della pittura, rispetto ai linguaggi propri del design o dell’architettura, e in particolare sono quelli di artisti quali Savinio, Carrà, Depero, o movimenti quali il cubismo o il cubismo di Praga, però sempre con un nucleo mentale e affettivo di persona nata qui, a Milano, in un momento in cui la cultura c’era ed era fatta da queste persone, che ancora resiste e vive dentro di me.

Alessandro Mendini, Gun, Hat, Shoes, mixed media, project for Men’s Accessories, with Alchimia 1983

Alessandro Mendini, Gun, Hat, Shoes, mixed media, project for Men’s Accessories, with Alchimia 1983

Alessandro Mendini, Tower for Hiroshima, with Yumiko Kobayashi, 1988, drawing by Yoshiyuki Nagasaka

Alessandro Mendini, Tower for Hiroshima, with Yumiko Kobayashi, 1988, drawing by Yoshiyuki Nagasaka

Altresì c’è poi da parte mia un’attenzione particolare all’aspetto romantico del progetto, che vuol dire espressionismo, antroposofia e quindi Rudolf Steiner, e come architetti Erich Mendelsohn e Antoni Gaudì ai quali spesso sono stato collegato. Un altro aspetto è quello dei linguaggi più freddi, ma più energetici, che sono quelli, ad esempio, dei futuristi. Ecco così che tutti questi elementi collegati alla parola bottega e collegati alla bottega del Rinascimento, sono gli elementi che a mio giudizio danno i valori principali e fondamentali al design italiano, e che indipendentemente da me ritroviamo in Gio Ponti e Ignazio Gardella, Carlo Scarpa ed altri.

C’è stato un momento in cui nell’architettura gli elementi si sono così armoniosamente amalgamati da raggiungere la perfezione?

 La Grecia sicuramente, ossia l’Ellenismo e la statuaria.

Alessandro Mendini, Coffee-table, 1975

Alessandro Mendini, Coffee-table, 1975

Il mondo oggi è così violento, così duro, così cattivo, così bellico che la perfezione è un’utopia. Credo che per raggiungere un obiettivo interessante in questo momento storico sia necessario avere un miraggio irraggiungibile, perché se pensiamo a visioni facili da conseguire pensiamo fatalmente ‘basso’, pensiamo in maniera troppo pragmatica e pertanto scarichi di emozioni, scarichi di spiritualità. È la critica che io faccio al design contemporaneo, quella di essere pragmaticamente legato al prodotto. La parola prodotto è una parola bruttissima! Per realizzare qualcosa di buono non possiamo parlare di prodotto o di merce, per carità! dobbiamo parlare di cose, oggetti, evanescenze.

Alessandro Mendini, Sirfo, duck table, crystal and aluminium, 1986, Maifactured by Zabro

Alessandro Mendini, Sirfo, duck table, crystal and aluminium, 1986, Maifactured by Zabro

 Questo intendere le opere un puzzle continuo che annulla ogni cronologia, è un concetto prettamente legato alla sua filosofia, o un modo di guardare all’arte attraverso i secoli nella sua globalità?

 Progressivamente mi sono sempre più legato alla mia memoria. Se guardiamo ad essa troviamo un labirinto percorso da ‘andate’ e poi ‘ritorni’, per finire in estremo in un vicolo cieco dal quale non abbiamo altra alternativa che tornare indietro, per poi, semmai, ripescare un ricordo come quello di una finestra di una chiesa romanica visitata quindici anni fa. È questa foresta un pochino ombrosa dalla quale è difficile uscire, che a mio giudizio rappresenta un valore dentro ogni persona, un valore però che pochi sanno ascoltare, perché l’impulso naturale è quello di guardare verso il fuori, di tendere all’estroversione, che poi altro non produce che comunicazione mondana. Ecco, se tutto avvenisse in maniera più introversa il mondo avrebbe più peso specifico.

Alessandro Mendini, Stella Park, with Yumiko Kobayashi, project for the park in Hokkaido, Japan, 1985, drawing by Yoshiyuki Nagasaka

Alessandro Mendini, Stella Park, with Yumiko Kobayashi, project for the park in Hokkaido, Japan, 1985, drawing by Yoshiyuki Nagasaka

Oggetti, mobili, design, pittura, installazioni, architettura, sono esperienze diverse dell’essere artista, ma che oggi la nostra contemporaneità legge come un medesimo grande mestiere. Quale percorso ha portato a un libero confronto e a una vitale contaminazione fra le discipline?

 Nell’occuparmi di diverse discipline non mi pongo ad esempio e nemmeno mi considero un maestro. Penso che sia in un certo senso sbagliato impegnarsi in più cose. È una dispersione faticosissima da gestire nella testa.

Alessandro Mendini, Fountain, Steel and black marble, for the caprotti Showroom, with Francesco Mendini, Monza 1988

Alessandro Mendini, Fountain, Steel and black marble, for the caprotti Showroom, with Francesco Mendini, Monza 1988

Ci sono autori che piuttosto che espandersi buttano delle sonde in maniera precisissima, come, ad esempio, il caso di Giorgio Morandi. Fortunato lui che per tutta la vita ha lavorato con semplici bottiglie disposte su un tavolo, creando meraviglie e un’enorme poesia. Sento però di non potermi atteggiare a giudice rispetto al lavoro altrui, di non poter dire che occuparsi e spaziare su tante cose sia un metodo più o meno migliore. Posso pormi, semmai, ad esempio di un’esistenzialità vissuta con estrema cura per le cose di cui decido di occuparmi, perché poi, ognuna di queste cose, è fatta sulla base di una tesi da dimostrare, di un’ipotesi da raggiungere, di un metodo da perseguire, e questo puzzle nel suo complesso ha il senso di un movimento pulviscolare, che però nel suo insieme, forse, altro non è che una nebulosa che diffonde un po’ di luce. È chiaro che una disciplina – parlavamo poco prima di Morandi, e questo è un caso fantastico! – se chiusa nelle proprie regole interne, se non ossigenata dall’esterno, non può che finire in un gorgo. Ecco quindi che ossigenare una disciplina usando il metodo di un’altra, diventa utilissima per attribuire a qualsiasi mestiere una forza ideativa (la parola creatività mi dà fastidio) e generare così un lavoro ideativo. Sono proprio i mestieri quindi e la loro rivalorizzazione – dall’architetto al panettiere, dal fotografo al parrucchiere – a rappresentare un possibile riscatto di una ideatività tutta italiana.

Alessandro Mendini, Lassù, chair, 1975

Alessandro Mendini, Lassù, chair, 1975