R(iz)OMA: metaversi della presenza materiale.
di Serafino Murri
Non c’é mai stata un’epoca che non si sia sentita moderna, e non abbia creduto di trovarsi immediatamente davanti ad un abisso. La consapevolezza disperatamente lucida di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità.
Walter Benjamin, Passagenwerk
Sull’idea di passaggio (l’atto del percorrere, corridoio ideale tra spazi ri-animati dallo sguardo in movimento che li coglie, ma anche nel senso cronologico del trascorrere come naturale implodere di ogni modernità su se stessa), nel fatale incompiuto del suo Passagenwerk, Walter Benjamin fondava lo spazio urbano come ϑέατρον di epoche rianimate dagli occhi oziosi del flaneur perennemente impegnato a perdersi nel presente, incantato punto d’intersezione tra pre-istoria e post-storia. Il prodigio del loisir, nella sua fertile improduttività ricettiva, figlio dei passaggi parigini, musei a cielo aperto all’ombra della borghesia in fiore del XIX secolo, già ghigliottinato nel declinare del secolo di Auschwitz dalla scure della postmodernità, infettato di solitudine saturnina e saccheggiato della possibilità di narrare la propria gioiosa inconsistenza, nel XXI secolo è stato inglobato nella “grande macchina” preconizzata da E. M. Forster, quella realtà virtuale “più vera del vero” cercata come l’acqua nel deserto del reale dal rabdomante dello spirito Artaud.
E in questa transizione epocale, chi è (o cos’è) il nuovo flaneur? O meglio, con quali occhi possono cogliere la consistenza antropica dell’arte, le sue architetture materiali, gli spazi abitati e delineati dalle opere che costellano i luoghi concreti della città, le generazioni digitali (non solo native) che modellano le proporzioni del mondo percepito dai sensori ottici con il pinch zoom sul display, abituate come sono a spilluzzicare immagini inconsistenti, a dominare il fantasma del reale distanziato smembrandolo in un mash-up di routine che ne riscrive egocentricamente forma e intenzione? Eh sì, perché l’immaginazione, quell’ipertrofia creatrice della macchina non-triviale umana che ri-animava il respiro del passato nello spirito del libero percorrere, faceva da punto di incontro tra le immateriali fantasmagorie della mente e le forme concrete del reale.
Ora, quella facoltà è ridotta a immagin-azione, azione (digitale) sull’icona che è già sempre res privatizzata, customizzata, de-privata del suo pubblico consistere materico nella cattività del display, dove si procede per calchi e meme, dove la diade origine/originalità non esiste più, in una dimensione in cui il rapporto tra il tempo materiale e i materiali del tempo come pienezza sensoriale di un’organicità dell’esperienza svanisce in un’emorragia espressiva iperframmentata, nel connettivo-non-più-collettivo che si dà tra miliardi di individui isolati fuori dello spazio.
Che posto va a occupare allora l’arte millenaria che persiste e (auto)espone alle intemperie della storia e dell’atmosfera la sua consistenza discreta, nell’esperienza continua dell’altrove che la soggettività digitale induce, quale discontinuità, quale promesse de bonheur è in grado di rappresentare? È solo rovina del tempo analogico o sa ancora filtrare (o flirtare con) lo sguardo post-storico, determinare la qualità del rapporto tra l’ambiente reale e l’elemento umano che tende vieppiù a sfuggire nel metaverso la propria corporeità? E soprattutto, attraverso quali passages può ancora l’arte praticabile in presenza ambire a innescare nell’uomo algoritmicizzato l’ek-stasis (un tempo fuoriuscita dello sguardo dal proprio corpo materiale), ripristinare l’ejzenstejniana non-indifferenza e scuotere le sue emozioni ancora non addomesticate, fino a farlo riemergere dalla superficie dalle protesi digitali, da quello che è ormai diventato il suo corpo immateriale?
Ipoteticamente, percorriamo Roma: carapace di sampietrino di una Tartaruga che si muove lenta e indolente verso il futuro, dove l’Achille della digitalità sembra non poterla mai raggiungere per trasformarla in smart city. Come l’acqua per i proverbiali pesci di Foster Wallace, l’arte nella Roma monumentale, il suo ipnotico panorama, tende a sparire, anche perché la città non ha un centro su cui ruotare: o meglio, come un rizoma, si estende in molteplici gangli di storia collegati senza gerarchia. Qui l’arte è una fibra che tende a tuberizzarsi, a diventare edafica nella penombra perenne dei magazzini museali dove centinaia di migliaia di statue, quadri e manufatti scoccano l’urlo muto della propria invisibilità: non diversamente da come l’ultima sedicente avanguardia implode il suo pop, la concettualità e l’arte povera ornamentadosi nelle umbratili case dei collezionisti d’arte paleocontemporanea. L’imbalsamazione artistica, del resto, è emanazione dello spiritus loci: persino la street art, pratica controculturale in teoria ancora illecita, è (non da oggi) benevolmente cooptata dall’istituzione, e accanto ai pochi artist incommissionabili (penso a Blu e alla sua irriducibilità, che non glorifica spazi pseudo-alternativi ma riaccende spazi cancellati dall’abbandono del Potere), dal Quadraro al Pigneto, da San Lorenzo a Ostiense, nelle ex periferie elette a post-storici “centri” senza apogeo e gentrificati, i Michelangelo dell’acrilico industriano immaginari prêt-à-porter (con tanto di visite guidate) per pubblica concessione su trabattelli a norma.
Solo oltre il cerchio magico del raccordo anulare, dove affiora il brado dell’agro pontino, occhieggiano autentiche periferie abbarbicate alle fortezze dei centri commerciali, e sussurrano la loro silenziosa contro-storia da palazzi abbandonati, abusi edilizi bloccati, e filze di smorzi e sfasciacarrozze. Come recuperare questa molteplicità all’esperienza nella/dell’arte? Solo costringendo il digitale da carnefice a trasformarsi in motore dell’interazione tra uomo e spazio urbano, tornando a rendere un corpo ai flaneur tecnologici, creando metaversi nel reale, ri-mediando l’arte materiale (palazzi, statue, strade) in ambienti sensibili, o meglio, risensibilizzati.
Se il passaggio materiale di un uomo tra reti di sensori potesse mutare l’illuminazione inglobandolo nell’opera e responsabilizzandone la presenza, se l’opera potesse essere aumentata nella sua realtà da ambienti sonori rielaborati a partire dal rumore di passi e parole di chi la visita, se immagini immateriali (visive, sonore, persino olfattive o tattili) interagissero all’improvviso con le opere trasformando la presenza umana in segno sul segno, si contaminerebbe del prodigioso gioco interattivo che ci incatena al display il percorrimento, fino a creare i flaneur di una post-storia che si riscrive da sé. Così, sarebbe proprio l’elemento corporeo del visitatore a ricreare quel che l’immaginazione atrofizzata dai display stenta a cogliere nella nuda vita delle opere: captandone l’imprevedibilità di comportamenti e flussi, e trasformandola in dinamica estetica. Per realizzare quel che sembra uno scenario futuribile (eppure già pienamente realizzato nella monadica esperienza quotidiana digitale), occorre oltrepassare l’indolenza (per lo più politica) dell’istante eterno, dove la tartaruga che preesiste è sempre un passo più avanti di Achille nel gioco della infinita frammentazione. Ri-estendere il tempo, ricongiungere con la viva presenza di visitatori-attori la miriade di modernità già implose in un nuovo rizoma che le riattualizzi, restituendo lo stupore dell’esserci e del praticare come fonti del senso dell’arte.