La lezione di Montale. Antonia Pozzi e Vittorio Sereni
di Michela Davo
Tra i primi estimatori della poesia di Antonia Pozzi figura Eugenio Montale. Antonia nacque a Milano in una famiglia altoborghese: la madre, nipote di Tommaso Grossi, sembra sfiorare di sbieco la vita della figlia, costantemente scossa, invece, dalla figura paterna. Avvocato di chiara fama e sensibile all’ideologia fascista, Roberto Pozzi esercitò, di fatto, la propria autorità non solo sull’esistenza di Antonia, ma anche sulla sua morte e su ciò che di lei rimase al mondo: un testamento (distrutto) e le poesie scritte su fogli sparsi (manomesse).
La relazione della giovane Antonia con Antonio Maria Cervi, suo professore di latino e di greco presso il Regio Liceo – Ginnasio Alessandro Manzoni, durò fino al 1933 e venne interrotta bruscamente per via di malumori familiari. Alcune poesie, datate 1929, contengono una cifrata eppur perspicua dedica al compagno di quei giorni (è il caso di Ritorni, Pace, Flora alpina, Canto rassegnato, Vaneggiamenti, Fuga, La discesa, La stazioncina di Torre Annunziata, Bambinerie in tinta chiara, Solitudine, Copiatura, Giorni in collana, Le mani sulle piaghe), nonché delle definizioni del loro amore («Io l’ho veduto, allora. Tu sonavi / il tuo violino, con la testa bassa: / le ciglia ti segnavano sul viso / due strisce d’ombra. Io vibravo, forse, / insieme con le corde, nei singhiozzi / che l’anima imprimeva alla tua mano / e t’incontravo al sommo delle dita». Vaneggiamenti, vv. 1-7). Negli anni successivi, nessuna poesia sarà preceduta da rimandi dedicatori, forse proprio per sfuggire la censura paterna. Rimarranno, tuttavia, inserti malinconici («[…] tristezza di questa mia bocca / che dice le stesse / parole tue / – altre cose intendendo – / e questo è il modo / della più disperata / lontananza», Sfiducia, vv. 6-12), plausibili allusioni a quell’amore mai scordato. Egualmente, anche il dolore sembra avere un nome: la maternità tanto desiderata, e mai sperimentata, torna costantemente nelle poesie di Antonia Pozzi. Se negli anni, per così dire in fiore, della relazione con Cervi l’evocazione è prevalentemente allegorica e venata di speranze («[…] poi che una culla e un’eco / ho trovate nel vuoto e nel silenzio», Vicenda d’acque, vv. 19-20; «[…] forse qualcuno che sarà / domani – / forse una creatura / del nostro pianto –», Presagio, vv. 18-21; «[…] Oh bimbo, bimbo mio non nato, / la tua mamma non sa / che viso avrai, / ma la tua manina la sente / per ogni sua vena / leggera / come un piccolo fiore senza peso», Domani, vv. 33-39), a partire dal 1933 il desiderio di maternità cerca, dapprima, di esaurirsi nell’effimera soddisfazione offerta da qualche surrogato («Vedi / questo è il mio bambino / finto. […]. Dice anche “mamma” – / sì – / se lo rovesci sopra il dorso», Scena unica, vv. 1-3 e 7-9) e, poi, non nasconde la resa di fronte a un desiderio oramai visto come irraggiungibile («[…]. E perciò il nostro bimbo / unico / sarà quello / che noi sognammo / nei mattini di giugno /– ti rammenti? –», Unicità, vv. 6-11): era stata Antonia stessa, in fondo, a consacrare il proprio ventre a quel solo bambino sognato, promettendo sterilità a qualsiasi altra forma di vita («[…]. Io credo questo: / che saprei squarciarmi / con le mie mani / il grembo / prima di dar la vita / ad un figlio / non tuo», Unicità, vv. 19-25). La fine della relazione con Cervi segna dunque il passaggio all’anzianità, il «grembo freddo» viene relegato all’inverno ed è alle mani che spetta il tradimento ingrato, quello che rivela l’età dell’anima: «[…]. / Non tu, / ma le tue mani giovani / dicono alle mie mani, / a me: Come siete / vecchie» (Le mani, vv. 31-35). Antonia ha 23 anni quando, inerte, assiste alla morte del figlio mai avuto, le cui spoglie vengono affidate a Santa Maria in Cosmedin («[…]. / Custodisci ora tu / nella penombra crea / dei tuoi marmi / questo bambino morto ch’io reco – / questo povero / sogno –», Santa Maria in Cosmedin, vv. 13-18).
Un altro elemento, stavolta di tipo paesaggistico, che attraversa la composizione poetica di Antonia Pozzi è il lago. La famiglia Pozzi possedeva un’abitazione a Pasturo, paese di manzoniana memoria non lontano da Como, dove Antonia era solita trascorrere qualche periodo di villeggiatura; tuttavia, non mancano, nelle poesie, note geografiche che rimandano ad altri laghi, ad esempio a quello di Misurina e di Monate.
La ricorrenza poetica dell’elemento lacustre l’avvicinava all’amico Vittorio Sereni, parte di quella fitta rete culturale milanese che la giovane aveva avuto modo di frequentare anzitutto durante gli anni universitari: si laureò con Antonio Banfi, discutendo una tesi su Flaubert, e conobbe, tra gli altri, Enzo Paci, Dino Formaggio e Luciano Anceschi. Tanto Sereni quanto la Pozzi, mostrarono un’ideale sintonia con la parabola tracciata da Montale: a partire dalle Occasioni (1939), il poeta genovese, non dimentico dell’eredità di Govoni, aveva in certo modo conferito cittadinanza poetica all’oggetto tecnico, senza, tuttavia, necessariamente implicare un concomitante abbassamento stilistico. La tradizionale poesia lirica, legata al paesaggio naturale e ai suoi elementi, si trovava per così dire contaminata da un mondo secondo, quello sorto in seguito alla rivoluzione industriale. I primi componimenti poetici di Sereni e Pozzi sono ben più vicini al lirismo canonico rispetto agli ultimi, aperti (soprattutto nel caso della poetessa) anche al racconto di scenari sino a quel momento inediti, e che sarebbero poi stati inclusi nella defnizione di «terzo paesaggio» da Gilles Clément (Manifesto del terzo paesaggio, 2004). I sereniani «strumenti umani» in Antonia Pozzi cedono il passo a «oggetti muti» (Secondo amore, v. 8), lasciando nondimeno la possibilità di riscontrare una certa consonanza nella scelta dei termini tecnici: è il caso, per esempio, dei «convogli» (citati da Antonia Pozzi in Treni, v. 19 e da Vittorio Sereni in Italiano in Grecia, v. 2), o dei «carri» (Pozzi, Treni, v.15; Sereni, Compleanno, v. 15).
Antonia Pozzi morì il 3 dicembre del 1938. «Siate buoni» furono le ultime sue parole di cui si conservi memoria, nel saluto alla sua classe dell’Istituto Tecnico Schiaparelli di Milano; poche ore prima di raggiungere i campi attorno all’abbazia di Chiaravalle e cadere addormentata nella neve, dopo un’ingente dose di barbiturici. La famiglia imputò la morte a una polmonite, il padre alterò le carte su cui erano state annotate le poesie; e, poi, sarebbe stato proprio Montale a manifestare sdegno nei confronti di chi leggeva l’opera di Antonia Pozzi in chiave autobiografica, scagliandosi contro quell’auratico sentimentalismo troppo spesso ritenuto cifra distintiva della poesia femminile, e dimostrandosi così, ancora una volta, non solo un precursore, ma indiscusso maestro della modernità.