Dell’immagine
Mandala
a- Dello spazio come superficie assoluta
1. Descrivere un oggetto dotato di concretezza fenomenica, di colore, dimensione e forma, comporta la lettura delle relazioni, le ipotesi sulle quantità e sugli elementi commensurabili, e infine su ciò che le forme possono significare per la nostra vita interiore, in che modo queste possono interagire con lo spazio, tradursi nel suo riflesso spirituale, nella testimonianza 'intellettuale', etica ed estetica, dell'esistenza stessa delle cose.
Il vissuto del nostro corpo è il risultato di una sintesi tra ciò che percepiamo come obiettivamente esistente e ciò che la nostra coscienza è in grado di interpretare, come se tali segni realmente appartenessero al mondo, o, viceversa, come se ciò che percepiamo fosse solo la proiezione verso l'esterno di una complessa configurazione di forme che ricostruiscono, di fatto, a nostro uso e consumo, l'immagine del mondo che abbiamo di fronte.
Possiamo effettivamente parlare dell'esistenza obiettiva della materia e di ciò che costituisce il suo substrato relazionale e intellettivo? Oppure siamo costretti, nel momento in cui ci fermiamo a riflettere sulla concretezza delle cose, a fare i conti con la fragilità dei fenomeni, con l'indeterminatezza delle forme, come sembra suggerirci l'idea che non esista alcuna realtà, ma solo il suo sogno. Sogno che ci ostiniamo a voler sognare, flettendolo sotto il peso della teoria, soffrendo come amanti delusi e sedotti, nell'illusoria speranza di poter prima o poi raggiungere e soddisfare la sorgente delle nostre passioni.
La prima idea, quella della materia obiettivamente fondata, ha costruito nei secoli un mondo ordinato, preciso come la meccanica newtoniana, governato da leggi assolute, da un dio razionale che, sazio della perfezione dell'atto, si disinteressa alla sua stessa creatura. Un universo dominato da una visione assoluta, senza ombre. Artefice o demiurgo, il dio è razionale. Nulla cambia nel tentativo disperato dell'uomo di conquistare un approdo, una certezza, un punto fermo, in grado di bloccare l'inconsistente frantumarsi delle cose. Come il disperato lamento dei pastori greci, che, piangendo la morte di Pan, rompe il cerchio fatato dell'idea di una natura unica. Allo stesso modo, dall'osservazione attenta di alcune manifestazioni della luce, ironia della sorte, si fa strada il dubbio che il mondo non sia il monolite meccanico che il dio razionale postula.
Goethe, tra i primi, contro la tropia concettuale di Newton, la sua palese inconsistenza fenomenica, pone i fondamenti di una teoria della natura che rimette in discussione il dato oggettivo della forma. Il colore non è più assunto come la concreta prova, l'experimentum crucis, che assoggetta l'universo a una generale teknè geometrico-matematica, bensì la mutevole nuvola all'orizzonte del cielo romantico. Le sue caratteristiche generali possono essere solo intuibili, tassonomizzate dalla mutevole successione delle sue trasformazioni, che comprendono, in un unico sistema, soggetto e ambiente, osservatore ed osservato. La luce può subire l'oggettivazione sistemica di una teoria, che tenti di definirne i contorni, senza mai giungere a una soddisfacente approssimazione. L'ultima ratio del colore risiede solo nella capacità dell'occhio di non soccombere al caos della frammentazione, al fluire dell'apparenza. Per il colore non possiamo mai parlare di valori assoluti, ma sempre ne altera le qualità l'insieme di tutti i colori, presenti e possibili in una continua performance della cangianza.
Questa idea ci avvicina all'oriente, a uno spazio pensato come sintesi a posteriori delle forme, al modo in cui gli orientali collocano, al centro di un luogo, la concreta esperienza dei sensi. Sembra una via per oggettivare la conoscenza, mentre viceversa, proprio questo, l'idea costruttiva della coscienza del sé, costituisce il nucleo attorno a cui ruota il nostro modello interpretativo dello spazio.
Così, se da un lato la fondazione di un'architettura, di uno spazio destinato a una funzione, viene posta in relazione con l'idea cosmologica, come nella scienza geomantica della Cina confuciana, dall'altro lo stesso sistema relazionale assume carattere normativo. Come nel caso del microclima interno della casa tradizionale giapponese, mai pensato separato dall' esterno. Qualsiasi esperienza là venga fatta, è sempre sottolineata la sua dipendenza dagli aspetti generali, metereologici, del mondo. L'interno/esterno della casa orientale ci suggerisce un'idea del valore, relativo e assoluto al tempo stesso, dello spazio, inteso come una superficie continua.
Solo la scala dell'incommensurabile, del cosmologico, può tradurre con apparente certezza la griglia volubile e frammentata a cui l'oriente riconduce l'esperienza del luogo. Ciascun oggetto non è più tale, essendo il suo valore variabile e percepito come dipendente dall'insieme dei singoli elementi che si ricostituiscono grazie a ciò che il nostro spirito percepisce come unitario. E' dunque una somma di sensazioni, ciascuna governata da un particolare organum esperienziale, una frammentata unità, che costituisce la forma propria dello spazio, in quanto soggetto attivo della nostra visione. Un suono, un odore, un particolare gioco d'ombra apre o chiude la nostra possibilità di conoscere, di con-prendere o meno il nostro corpo all'interno di questo luogo che si spalanca, nel qui e nell'ora, al nostro desiderio di esserci.
Consapevolezza e presenza: modalità di attenzione attraverso cui l'esperienza cambia di stato. Per mezzo loro si compie ciò che l'oriente chiama una revulsione della coscienza, un distacco dal sé, al cui attaccamento viene attribuita l'origine del male. Grazie alla pratica della consapevolezza si percepisce la condizione distratta del sentire, che può portare ad una modalità ontologicamente fondata dell'esperienza. Attraverso la percezione della coscienza del nostro non-essere-nel-mondo possiamo praticare un risveglio dell'attenzione, un aumentato senso delle cose. Pensiamo al mondo come a una rappresentazione, che i nostri sensi, sincronicamente, costruiscono grazie alla natura del sentire. Ogni senso dà luogo a una particolare espressione, un particolare canale di conoscenza, di valore o di disvalore, che agisce indipendentemente dalla volontà del percettore, o, per meglio dire, che agisce attraverso una volontà non controllata dal singolo individuo. Si ha così un mondo dominato dalle passioni, dalla confusione, da una rappresentazione vissuta come la migliore possibile, che si sostituisce alla realtà di cui possiamo fare esperienza solo grazie alle modalità della consapevolezza e della presenza. Attraverso la presenza si giunge a comprendere il valore profondo dell'esperienza, se ne diviene consapevoli. Praticare l'idea della presenza carica di significato ogni gesto quotidiano, lo ritualizza e lo annulla al tempo stesso. Porta, infine, all'abbandono di ciò che gli orientali chiamano il piano samsarico, il luogo del confuso e mutevole divenire delle cose.
Dalla precisione dell'atto, dalla sua consapevolezza, nasce l'istintiva presenza di chi lo compie, la sua sicurezza percepita come valore assoluto, la forza carismatica di un'azione, il cui risultato assomiglia alla grazia del volo di un uccello, alla precisione della caccia di un falco, alla micidiale zampata del felino.