Un libro di Luciano Galimberti

Trentatré piccole storie di design

di Patrizia Catalano

Un’educazione sentimentale che passa attraverso la rassegna di trentatré oggetti (33: un numero speciale), conosciuti e testati in prima persona dall’autore e da quella generazione di baby boomer a cui orgogliosamente Luciano Galimberti sente di appartenere. Se per la mia formazione il libro per eccellenza di  Storia del Design resta e resterà sempre quello di Renato De Fusco, la “Storia del Design Italiano” edito da Laterza, trovo le  “33 piccole storie di design” di Luciano Galimberti edite da Electa, un modo diverso, unico e appassionante, di  raccontare l’oggetto industriale. La scelta è quella di un breve testo dedicato a ciascuno dei pezzi selezionati, tre quattro pagine, corredate da un disegno a matita – massimo due – per la mano dello stesso Galimberti.

La prima impressione è data dalla forza di un racconto in prima persona, quasi fossero delle piccole ma indispensabili avventure. E questo funziona e perché il lettore si ritrova e fa i dovuti paragoni. Nel mio caso, per esempio, molti degli  oggetti descritti sono parte del mio attuale vissuto, mentre altri della mia gioventù. Che dire? La stilografica Hastil di Marco Zanuso prodotta da Aurora è l’unica stilo che ancora uso: un regalo, anche per me come per Galimberti, che mi fece mio padre, un uomo che amava la modernità e l’innovazione e che solo in tarda età abbandonò l’uso della stilografica a favore della penna a sfera.

La Mini Minor (blu con tettuccio bianco latte nel mio caso) è stata la prima automobile che mi fu regalata, neopatentata, (e, ovviamente, rigorosamente di seconda mano). E la cosa miracolosa fu che nonostante l’avessi usata e maltrattata, viaggiando dalle Alpi alla Sicilia diverse volte, riuscii a rivenderla alla mia room-mate in cambio di un semestre di affitto della casa che condividevo con lei.

Che dire poi della poltrona Thonet? E’ stata la prima sedia della mia vita da single. Me ne feci regalare una coppia dalla sorella di mia nonna, mentre mia nonna mi regalò un tavolo in acero di design svedese: entrambi furono acquistate da quell’MC Selvini negozio (multimarca) baluardo della cultura del design milanese e ancora oggi le pluri impagliate Thonet troneggiano attorno al tavolo da pranzo di casa mia. Ritornando, sempre grazie ai 33 episodi, alla mia adolescenza, mi sono rivista liceale quindicenne a cavalcioni del mio Ciao (bianco), il mitico ciclomotore della Piaggio, giustamente definito da Luciano Galimberti un vero pezzo unisex che metteva d’accordo sia la destra integralista che la sinistra radicale. Il Ciao rappresentò per la nostra generazione una vera conquista: “Tutta mia la città” cantava l’Equipe 84 e il ciclomotore ci faceva sentire padroni del mondo (un mondo meno complesso e pericoloso dell’attuale). Si andava a scuola, si andava a suonare all’amico sotto casa, intimandogli di scendere,  lo si portava perfino in vacanza, in montagna vigilante davanti al bar con juke box dove si passavano le giornate di cazzeggio insieme alla ‘compagnia’ e ai morosi di turno.

 E oggi? Nessun problema ci racconta Galimberti, quelli che per noi sono stati oggetti affettivi, e diciamocelo, anche un pochino di status, per i nostri figli sono, in alcuni casi, degli evergreen che resistono nel tempo come l’orologio da polso di Alessi, terribilmente elegante, per quanto understatement, la geniale lampada Parentesi, ready made di Achille Castiglioni e Pio Manzù per Flos, il letto Nathalie di Vico Magistretti per Flou. Ma sono stati anche ‘educativi’, poiché nel libro si  sottolineano  importanti cambiamenti di costume: la borghesia bene o male sensibile ai mutamenti culturali in atto si lasciava convincere a inserire nel proprio salotto un tavolino in cristallo su ruote di Gae Aulenti, simbolo di un rinnovato rapporto tra l’establishment borghese (il piano in cristallo) e il proletariato urbano (le ruote di gomma).

Si divertiva a scegliere il colore più idoneo, tra quelli campionati, del nuovo telefono da tavola Grillo di Marco Zanuso. I più ironici tra noi mettevano in fanteria salottini pseudo ottocenteschi a favore delle poltrone Sacco (Gatti, Paolini, Teodoro, per Zanotta) ideali per happening  domestici. I più iconici non rinunciavano alla chaise-longue LC4, di Le Corbusier, Jeanneret e Perriand (produzione Cassina), certamente non comodissima ma come avrebbe detto molti anni dopo Drugo per il suo tappeto ne “Il Grande Lebowsky”, epico film dei fratelli Cohen, il pezzo “dava un tono all’ambiente”. E ancora una volta, parafrasando il cinema, possiamo dire che ‘noi credevamo’. Credevamo che il mondo sarebbe stato diverso, più giusto, più etico, con meno discrepanze e differenze. Un mondo dove avremmo potuto sdraiarci tutti insieme sorridenti e felici sul grande letto Ring di Masamori Umeda disegnato per Memphis, progetto simbolo del design radicale e rivoluzionario.

Ci siamo riusciti? Forse, ma non abbastanza. Il design oggi è più fragile di forma e sostanza, anche se più forte è il suo valore contrattuale. Le nostre case non hanno più doveri formali e progettuali a cui rispondere. Gli attuali mezzi di comunicazione sono effimeri e in continuo cambiamento. E quindi? Cosa impareranno le nuove generazioni leggendo questo libro? Personalmente credo che capiranno il valore delle cose che restano, quelle che hanno segnato un passaggio importante nella loro vita durante la fase più delicata di formazione del carattere, quale può essere l’adolescenza. Credo che si ritroveranno in questo racconto di Galimberti e cominceranno a contare anche i loro cimeli: un po’ come il  giovane Jonathan, protagonista del libro di Jonathan Safran Foer.  Raccoglitori di oggetti (tantissimi), parte della loro quotidianità, destinati a divenire memoria di cose che hanno avuto un valore speciale proprio perché hanno segnato le loro vite e perché è proprio vero che “Ogni cosa è illuminata” soltanto da noi.

 

Da “Trentatré piccole storie di design”

5070 Ettore Sottsass per Alessi 1978

di Luciano Galimberti

Martina Barberis Casagrande, Ettore Sottsass, Ampolla, produzione Alessi

La mia prima cena con Angelo Cortesi. Pagata ovviamente da lui, coincide con la conoscenza di un mondo ostico quanto fascinoso. Erano gli anni ottanta, la città era in pieno fermento: moda e design stavano assumendo un ruolo di primo piano nel posizionamento culturale e d economico del made in Italy.

Chi ha vissuto a Milano in quegli anni si ricorderà certo la Ranarita, uno dei primi ristoranti di tendenza ben posizionato in Brera, davanti alla basilica di San Marco. Angelo aveva deciso di conoscerci meglio e di aiutare me e i miei due soci a orientarci in un mondo professionale che non conoscevamo: nessuno di noi apparteneva ad una famiglia di architetti o designer e i nostri ventun anni erano davvero pochi per aver la ben che minima esperienza al di là dei corsi al Politecnico: probabilmente gli eravamo sembrati degli ingenui sprovveduti, ma altrettanto probabilmente gli era piaciuta la nostra voglia di progetto.

 Per tutta la cena le domande susseguirono ai suoi interventi di una durezza inaudita sul fare design, sulla necessità di darsi obiettivi e sul senso politico del nostro operare.

Alla Ranarita, nell’attesa della cena, servivano una focaccia un po’ rinsecchita, che tutti ricoprivano di olio per ammorbidirla. L’oliera che ci portarono fu una vera e propria apparizione mistica sul tavolo; non le solite oliere unte che sembravano ampolline da messa in una parrocchia di paese, bensì un vero e proprio altare, con due ampolle decisamente sovradimensionate rispetto alla loro funzione. Eppure, quella presenza sul tavolo rese immediatamente spirituale il semplice gesto di versare olio sul pane, un richiamo ancestrale potente e semplice.

Ne parlammo per almeno un’ora: al di là della forma nella quale Sottsass risolveva la funzione in maniera ineccepibile, il suo vero punto di forza era quello di averci reso disponibile una profonda ritualità, capace di superare, non senza ironia, la statica gestualità piccolo borghese, fatta di consuetudini ormai lontane dall’intimo dell’uomo.

Alberto Alessi aveva avviato da poco la ricerca, affidata alla direzione di Alessandro Mendini, attorno alla tavola, che avrebbe segnato il panorama domestico in Italia e non solo. La pluralità di pensiero espressa in quella ricerca è ancora oggi un esempio metodologico, oltre che essere stato un bacino ricchissimo di progetti che hanno contaminato i settori più disparati della produzione.

Finita la cena, Angelo ci portò fino a tarda notte, pagando sempre lui, in un locale che si chiamava il Banco, dove incontrammo per caso Michele de Lucchi ed Ettore Sottsass, che salutarono Angelo, certamente, ma anche noi come dei colleghi con cui bere-molto. E scambiarsi storie e opinioni. Angelo ci congedò, decisamente ubriachi di parole e vino, con un’ultima massima: “ Per fare questo lavoro ci vuole un fisico bestiale”.

Avevo incominciato il mio percorso nel mondo del progetto.