ELOGIO DELL’INUTILE IMMAGINIFICO
di Serafino Murri
In un appunto del 1968 del Diario degli errori, Ennio Flaiano annotava una frase del chimico Alexandre Dauviller, nella sua asettica perentorietà inquietante, che recita: “La vita e il pensiero sono perpetui solo in modo statico e non assolvono alcuna funzione nell’evoluzione dinamica dell’universo. La vita è apparsa, si è evoluta ed è scomparsa su una miriade di pianeti in un ciclo di qualche miliardo di anni, limitata nella sua durata da eventi cosmici, o per effetto della sua stessa evoluzione”. Dauviller sottende una concezione della vita come fenomeno fotochimico seriale e temporaneo, già apparso e dissoltosi in “miriadi” di pianeti senza lasciare traccia, liquidando con evidenza statistica il pensiero come qualità esclusiva dell’umano, e relativizzando come episodio non necessario (cioè ininfluente sull’evoluzione dell’universo) il suo assetto storico-logico, intrappolato nella fenomenologia dell’unico connaturata alla mente individuale.
Allo stesso modo, l’idea dell’universo come inflazione di energia generata dall’espansione deflagrante di una singolarità atomica anteriore al tempo fisico avanzata da Hawking con la teoria del Big Bang, si conclude con lo scacco dell’osservatore logico immerso nell’orizzonte del tempo, a cui è impossibile concepire un non-tempo che non lo ri-guardi, un tempo ricurvo su se stesso, privo di misurabilità: “I confini dell'Universo non esistono. Lo spazio-tempo euclideo è una superficie chiusa senza fine, come la superficie della Terra. Non c'è nulla a sud del Polo Sud, allo stesso modo che non esiste nulla prima del Big Bang». Hawking si riferisce qui a un concetto a cui la mente umana è refrattaria: l’infinità del nulla. Un nulla che è tutt’altro che vuoto, ma al contrario è un pieno potenziale dove le singolarità coesistono non scisse: una dimensione che l’illusione monadica dell’auto-coscienza di un osservatore, non può immaginare. Un’infinità al di là di spazio e tempo, dove tutto e nulla si congiungono, che è una riformulazione dello scarto tra uomo e Dio, e del limite di ogni idea cosmogonica, dell’inganno che produce il passaggio dal molteplice potenziale (la pienezza del nulla, appunto), alla forma definitiva, che è compimento, atto e dissoluzione necessaria nel parziale fenomenico. Eppure qualunque evento fisico, inclusa la vita e il suo accadere, come la meccanica quantistica spiega da oltre un secolo, ha sempre a che vedere con un’osservazione, che gli imprime un senso: non c’è fenomeno fisico (e, a maggior ragione, psichico) che non abbia come condizione un punto di vista interno, un riferimento percettivo testimoniale. Come se solo la presenza individuale di una coscienza percettiva inverasse il reale, relativizzandolo a una visione.
Il pensiero del puro consistere del mondo senza un punto di vista che lo limiti rendendolo sensato, che sarebbe poi il concetto più fedele dell’universo fisico così come del Verbo biblico che “in principio era” in quanto emanazione dell’imperscrutabile totalità divina, è insomma come la celebre scatola di Schrödinger: un luogo potenziale, dove il gatto è al contempo morto e vivo, che si attualizza in un evento solo se si aggiunge al suo stato probabilistico di entaglement, di sovrapposizione tra stati antinomici, un osservatore che spezza nel tempo l’incertezza costituzionale del tutto potenziale – dinamica e perpetua sostanza di tutte le cose, vive e no. Nell’era della digitalizzazione integrale, il sentimento del sublime dinamico dell’universo si manifesta in una nuova forma di sublime, il “sublime computazionale”: il flusso vertiginoso dei dati digitali tracciabili, che ogni giorno miliardi di esseri emettono più o meno consapevolmente, infinito e come l’universo espandentesi su se stesso per inflazione, su cui gli algoritmi eseguono il mining, l’estrazione in base a criteri di lettura che attribuiscono senso e valore ai dati grezzi inserendoli in insiemi logici e coerenti.
Ma persino di fronte a questo schiacciante infinito numerico che è la linfa della Società del Controllo, la post-arte esornativa e fringe che fiocca mimeticamente in miliardi di storytelling quotidiani nei social media, religione del nostro tempo che ci relega nell’auto-rappresentazione all’Algoritmo Sovrano, delega all’Immagine le sue tracce di presenza. Perché è qui che risiede la differenza esiziale che connota il vivente: il suo processare l’universo avviene attraverso l’esistenza corporea. Immaginare, dare corpo a una visione, per l’individuo contingente e perituro vuol dire creare, dare forma nella mente che osserva a una serie di connessioni vissute che rendono organico e percettibile un insieme di relazioni emotive, di sommovimenti che scuotono l’equilibrio omeostatico del corpo percettivo, a cui ogni forma vitale tende per la sua propria autoconservazione.
Significa cioè mobilitare, rendere dinamico il percepire fornendogli una specificità “narrativa”: quella di organizzare l’esperienza in un atto conoscitivo, fazioso e relazionale, permeato di senso. Ed è qui che il corpo, questa oscurità imperscrutabile che ci è esterna quanto interna, fa da matrice immaginifica e pre-logica all’indefinitezza-infinità che permea il tutto, e crea lo spazio e il tempo che chiamiamo, da un “dentro” indefinibile nei suoi confini non meno di quanto lo sia l’universo, “pensiero”.
Lo sguardo individuale è dunque il filtro dell’infinito, è ciò che determina le pieghe in cui si manifesta l’esistente perituro/esperibile, è la cosmogonia del senso e del sentire, spinta comune a tutti gli individui che come il Big Bang depaupera la pienezza potenziale del nulla, facendola esplodere in un fenomeno di decadimento osservabile. E nella collisione tra gli schemi autopoietici dello sguardo individuale e il tutto in cui è immerso, nasce quell’attitudine profondamente inutile, che Dauviller ci dice non avere alcuna funzione dinamica nell’universo: quella che spinge a materializzare immagini, a testualizzare sensazioni, sedimentando l’inafferrabile infinità dell’esistente in una visione concreta e condivisibile che se non è imperitura, comunque si stacca e sopravvive allo sguardo che la concepisce, che è il gesto creativo.
La creatività è la ribellione dell’esistente destinato a decadere senza lasciare traccia, che ambisce motu proprio a trasumanare, a porsi al livello della pura energia del primo atomo, che pretende di essere al di là da ogni contingenza perché, nell’estasi del gesto espressivo, cattura un frammento di infinità, allo stesso modo che una molecola di acqua marina riproduce il senso e la struttura dell’intero oceano. Quale che sia la loro origine, che la vita e il pensiero come caratteristiche umane siano prodotti specifici della contingenza chimico-atmosferica del pianeta Terra o impiantati dalla caduta di qualche meteorite proveniente dai meandri più remoti dell’universo, il fatto è che la mente individuale, a dispetto dei limiti logico-razionali della coscienza, arriva a contemplare il tutto, ne avverte l’essenza, ma non riesce a scioglierne l’enigma se non cercando di replicarne lo sgomento, dando corpo, dentro e fuori di sé, alle proprie emozioni in immagini: una spinta di auto-mimesi, antica quanto lo è l’umano, che è l’essenza dell’agire artistico.
Nella sua illuminante opera L’inconscio come insiemi infiniti, Ignacio Matte Blanco, descrivendo le caratteristiche della logica simmetrica, quella che invalida i principi aristotelici e che è propria del lavoro inconscio così come di quello onirico, introduce l’idea della mente Bi-logica: la nostra mente è una commistione di logica razionale, che analizza e divide, e logica emozionale che fonde e infinitizza. Matte Blanco fa presente che la spinta simmetrica, quella che trascende i limiti della logica razionale che organizza funzionalmente l’individuo, è sempre concomitante a un’emozione infinitizzante, che comporta il dissolversi temporaneo delle relazioni spazio-temporali che strutturano il pensiero razionale, e pone in questo modo la coscienza in uno stato particolare di sospensione.
In altri termini, mentre un’emozione ha luogo, il pensiero non riesce a formulare a se stesso quell’accadere in un senso logico-linguistico: il suo strumento critico-asimmetrico (quello che analizza, distingue e rapporta a sé) è ridimensionato quasi fino alla scomparsa. In quell’attimo (non più lungo di quello del Big Bang) la coscienza si trova così di fronte a un bivio: dissolversi in una “confusione originaria”, o tornare a strutturarsi in nuove asimmetrie e divisioni. Si tratta di un momento indeterminato che Matte Blanco definisce “quantum di intelletto-emozione”. Ed è proprio questa condizione di indeterminatezza emozionale che dà origine alle immagini “interiori”, quelle prodotte dalla nostra mente. Spiega Matte Blanco:
“…Esiste una misteriosa unione tra il significato concreto, esplicito di un’emozione e i possibili, infiniti significati della stessa emozione che sono implicitamente espressi nel significato concreto. Possiamo chiamare questo fenomeno “quantum di intelletto-emozione” per sottolineare il fatto dell’unione del finito con l’infinito che si incontrano per un’istante nella coscienza, malgrado il fatto che l’infinito resti al di fuori della coscienza…” [1]
In questo dualismo bilogico che fonda il biologico, si compie il processo creativo in quanto tale. La materia prima della nostra mente, nella sua immaterialità, è dunque l’infinito potenziale di un significato concreto, esprimibile solo attraverso la complessità delle immagini, sedimenti emozionali e infinitizzanti dell’esperienza dei sensi: segni di infinito. Qualcosa che riecheggia la celebre battuta pronunciata da Prospero nell’ultimo atto della Tempesta di Shakespeare: “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d'un sogno è racchiusa la nostra breve vita”.
[1] I. Matte Blanco, Unconscious as infinite sets. A study in Bi-logic, tr. it. a cura di P. Bria, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla Bi-logica, Einaudi, Torino, 1980, p. 330
Come puntualizza Matte Blanco, nel sogno così come nell’attimo dell’emozione creativa, contempliamo l’infinito, la sostanza originaria del Tutto. Il bios imperscrutabile, l’oscura “volontà” schopenhaueriana che muove l’individuo e il mondo, dunque, lascia una traccia tangibile di quegli attimi di confronto totalizzante con il tutto (quello che significar per verba non si poria), nel gesto espressivo, nell’ex-premere, tirare fuori da sé l’immagine, dandogli corpo in un’opera. Trasformando qualunque materiale, dalle parole ai colori, dalle note alla pietra, nell’antimateria esperibile delle emozioni, rimescolando insieme concreto e immateriale.
Ed è per questo, di fronte all’agghiacciante miopia della storia umana, quella sì, perpetua in modo statico nei suoi corsi e ricorsi da grand guignol (come nei correnti venti di guerra nel cuore dell’Europa), o all’arrendevolezza auto-conservativa indotta dalla Società del Controllo negli individui, che non possiamo che rivendicare l’essenzialità dell’inutile, di quell’impeto emozionale che scarta dalla logica del profitto auto-conservativo, contabile e meschina “volontà di potenza” che pare essere la sola legge universale dell’umane sorti, gravitazione che attrae tutto verso il nucleo della mercificazione-monetizzazione, e che si sposa perfettamente alla natura unico-individuale, condividendone le istanze di auto-accrescimento/auto-conservazione.
L’utopia concreta adorniana, il continuare imperterriti a trasumanare il dono ottuso e invisibile del consistere vitale in opere d’arte che incarnano immagini immateriali nella materia sensibile, è così la sola possibile realizzazione dell’alterità nell’esistente: un brano di infinito incastonato in un tempo scolpito. L’arte non eleva l’uomo perché tramanda idee e valori: certo, “il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà” di fronte alla perfezione del nulla potenziale e divino, quell’evoluzione dinamica dell’universo oltre il tempo che per Dauviller è se non l’Eterno, almeno il perpetuo. L’arte eleva l’uomo perché è la sola esperienza che trasmette, al di là del suo stesso contenuto, nel prodigio della forma, un contenuto di verità che infrange l’infinita solitudine dell’essere: la sua ostinata inutilità nella storia del cosmo, è la sola sfida al dissolversi nel tempo, la materializzazione di quella tensione a uscire dai propri confini, e a ricongiungersi da vivi e coscienti con quell’infinità di cui siamo i portatori, non diversamente dall’atomo di Hawking che ha generato il Big-Bang. Siamo noi a farci universo, in quel preciso istante emozionale dove il tempo è ininfluente, ricurvo su se stesso, prima (e probabilmente dopo) di ogni cosa. Perché al limite estremo del pensiero, così come al sud del Polo Sud e prima del Big Bang, c’è l’Immagine.