L’effimero non è effimero
di Patrizia Catalano
Ciò che ha profondamente segnato le mie scelte culturali, di vita e di oltre trent’anni lavoro, è stato certamente il soggetto che scelsi per la mia tesi di laurea al Politecnico di Milano. Argomento cardine della tesi, che aveva come titolo ‘Confine Frontiera: un paradigma per le analisi urbanistiche e territoriale’, era centrato sul valore e la qualità della cultura nomadica contro quella stanziale e di come il nomadismo, i nomadismi, abbiano sempre generato nuove culture, nuove forme di società più forti e vitali di quelle stanziali.
Le grandi migrazioni, per quanto talvolta distruttive, hanno eretto nuovi templi, fondato nuovi credi per far germinare valori come convivenza e tolleranza. Nel mio piccolo ho cercato di tenere fede a questi valori a cui ancora oggi sono saldamente ancorata e ho capito che la leggerezza di un pensiero nomade non ha nulla a che vedere con la superficialità, ma ha molto a che fare con la resilienza e la sostenibilità.
Appena diplomata capii subito che, pur avendo una laurea in architettura, avrei dovuto orientarmi verso un’altra professione: scrivere di architettura, di design, costruire dei mood board (veri e propri set) per le testate per cui lavoravo. Questo mi permise di poter affrontare i temi del progetto in modo più agile e veloce, ma soprattutto, voleva dire non posare pietre, ma costruire dei mandala di parole e di scenografie che poi finivano in un cestino (se si trattava di testi scritti) o si smantellavano, nel caso dei set, quando il servizio fotografico era finito.
Il giornalismo, costruito con le parole e con le fotografie, era la mia strada, la strada maestra per indagare luoghi e persone: tutto si faceva e si chiudeva velocemente, nulla restava ‘in cantiere’ per anni, come spesso succedeva ai miei colleghi architetti.
Al di là di una personale filosofia di vita, sono sempre stata attratta dalla cultura nomade: considero per esempio il tappeto il più straordinario e insostituibile oggetto d’arredo di un ambiente. E provai un’intensa gioia quando scoprii che il buon Adolf Loos, il progettista che amava utilizzare nelle sue architetture, residenziali e non, materiali pregiati come marmi, cristalli e ottoni, considerava indispensabile arredare le case anche con tappeti orientali, in particolare con i tappeti a telaio delle tribù nomadi, i cosiddetti kilim. E ogni volta che alla televisione, o sui giornali, si parlava di Gheddafi, restavo incantata ad ammirare la sua regale residenza: trovavo geniale quell’uomo che si confrontava con i potenti del mondo piazzando la sua tenda nelle grandi capitali internazionali.
Ma il nomadismo non è solo una filosofia di vita, un tappeto o una tenda beduina: è anche un modus operandi che si può applicare all’estetica delle città, dei territori. Nomadismo inteso come non-permanenza: era applicato nelle libere città medioevali, e più ancora era fondamentale per la cultura barocca, per la quale era costume che ciclicamente si erigessero scenografie straordinarie, commemorative di una particolare ricorrenza, ma che pur sempre erano qualcosa di effimero, di non-permanente.
La parola effimero, nei tempi nostri, ha sempre avuto un’accezione negativa. Ciò che è effimero non può durare, mentre nella tradizione moderna scientifica e razionale, ha valore tutto ciò che è fatto per “durare nel tempo”. Di fatto ci troviamo circondati di cimeli destinati a durare e di cui spesso non sappiamo bene che farne. In primis le architetture.
Le scenografie barocche, destinate alla commemorazione di una festa o create in occasione di visite di importanti capi religiosi o di stato, simulavano altri luoghi, creavano vere e proprie città immaginarie. Ma alla fine tutto veniva smantellato e riaffiorava la quotidiana. normalità Si creava partecipazione, aspettativa, si montava e smontava, si cambiava scena e tutto diventava diverso. Era sì, la cultura dell’effimero, ma anche emozionante empatia. L’arte aveva molto valore, in tutto questo, era arte per commemorare una magnificenza, ma era anche arte per la collettività, per la gente.
Se oggi ci sembra fondamentale il valore della resilienza, perché non ripristinare il concetto – positivo – di arte effimera e temporanea? La Seated Ballerina di Jeff Koons piazzata nel 2018 a due passi dal Rockfeller Center era di fatto un pupazzo gonfiabile, in nylon, che spiazzava e al tempo stesso emozionava. Forse è proprio questo il nostro futuro: costruire il non-permanente, creare scene emotivamente spiazzanti, proprio perché temporanee e non invasive oltre misura. Tornare alle performance, alle installazioni urbane, di tutte le taglie e grandezze: dall’installazione di luce alle architetture vegetali, dal teatro di strada di cui i guitti italiani furono maestri, ai fuochi pirotecnici d’artista, tutto questo avrà senso e sarà davvero resiliente, solo nel momento in cui avrà un reale valore pubblico: dalla città e per la città.