Dalle memorie di un gallerista: Angelo Barcella
di Andrea Schubert
Ero seduto di fianco a un Revox a 4 piste. Uno strumento che allora usavano solo i musicisti per registrare in casa le loro composizioni da mixare. Era un oggetto inconsueto visto che le audio-cassette erano ormai uno standard consolidato da diversi anni. Il suono si diffondeva soffice come la polvere di legno che copriva finissima ogni cosa. Angelo mi sorrideva seduto all'altro capo del tavolino di legno grezzo auto costruito, come quasi tutto quello che mi circondava. Mi sorrideva come sempre, del resto, mentre versava lento il caffè in due chicchere di ceramica. Un caffè arabo preparato in una piccola curcuma in lega leggera. Uno di quegli oggetti che nei suk arabi trovavi ovunque.
Quando andavo da lui a prendere una nuova scultura il tempo si alterava un po', scorreva più lento. Sembrava che volesse essere più rispettoso del nostro respiro, della polvere di caffè in sospensione che doveva ancora depositarsi prima di portare alle labbra la tazzina. Rispettoso della polvere di legno perennemente in sospensione nei raggi di sole che tagliavano obliqui la penombra dello studio.
Angelo Barcella aveva sempre qualcosa da raccontarmi. Erano sempre cose tranquille, normali. Nessuna rivelazione importante ma l'importanza di quelle cose derivava proprio dalla sua tranquillità. Erano storie d'oriente, d'India, di un oggetto preso a caso nel suo studio, un disegno, un progetto di scultura mai realizzato o in fase di realizzazione.
Ogni suo cavallo aveva un nome. Quelli che prendevo io per esporre tra una mostra e l'altra erano piccoli, vestiti con una gualdrappa e portavano nomi di visr, di sultani, di nobili condottieri. Erano nomi di personaggi di una storia poco conosciuta da noi ma che lui amava ricordare.
Ogni opera era unica, irripetibile, anche se ripetuta nella posa, nelle dimensioni, nei colori.Tutte diverse ma unite nei precisi rapporti dimensionali individuati dal suo ingegno e riproposti in una molteplicità di colori e decorazioni,
Mi affidava la scultura come se lasciasse andare per il mondo un figlio ormai cresciuto: mal volentieri e con il tenero orgoglio del padre che lo ha preparato per una vita autonoma.