Paolo Veronese, “La visione di Sant’Elena” e la voluttà che si fa donna

di Luca Violo

Il piacere della visione, il gusto sottile di leggere la storia nei colori, nei gesti e nelle cose degli uomini, portano il conoscitore a studiare quelle opere che per il loro significato paradigmatico rappresentano il valore intimo del suo patrimonio visivo. Una biblioteca della memoria dove cogliere i fiori più rari: come in un serra i segni di un’emozione crescono sotto l’amorevole attenzione dell’illuminazione creativa, e le idee sull’arte paiono mosse da un’antica forza, quella del profondo mare dell’anima.

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L’approccio all’opera è pur sempre un evento che sospinge la sensibilità alla volta di lidi lontani, vero sensazioni già vissute, sedimentate nel tempo, ma dai contorni sfuocati. Una lente si frappone tra la realtà e un ‘certa idea’, e un pensiero lieve e al contempo violentissimo germina in noi: è la passione dei sensi, qualcosa di intraducibile, un curioso cesello di emozioni subliminali, forse la stessa negazione della parola come mezzo di espressione. La Visione di Sant’Elena di Paolo Veronese, datata al 1560 circa, nelle collezioni della National Gallery di Londra, è un quadro che d’acchito ci appare sommesso, volutamente semplice nella sua esposizione.

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Sottili ma innegabili sono le differenze che si pongono tra ‘semplice’ ed ‘essenziale’ come termine esatto per definire l’opera, mentre lo svolgimento iconografico immediatamente ci conduce a un contesto allusivo: guardare un sogno, uno stato d’animo profondo e intimo è qualcosa che va oltre la conoscenza dell’immagine; iniziare un viaggio entro il lato riposto dell’anima, in quella porzione dell’Es riflesso nei colori della nostra psiche, rappresenta ciò che gli antichi definivano Ut pictura poesis. Poesia muta, che attraverso altissimi voli dentro l’immaginario cerca faticosamente di dire del disagio umano davanti a un immenso deserto spazzato da albe boreali: l’uomo ha fede nell’assoluto perché angosciato dal vuoto cosmico che avvolge il suo spirito.

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I colori di queste luci primigenie si rivelano sontuosi ed eclatanti nel venetismo ‘tenero’ di Paolo Veronese: rossi porporini sgorgati dal sangue sabbioso di giovani dee; verdi smeraldini di oceani, nascosti custodi di segreti immortali; blu e azzurri nati nell’ultima notte, quella dove le lettere morte risorgono per dirci delle eterne speranze. Mai i colori hanno cantato cori così magnificenti! E alla mente viene subitaneo il nome e l’arte del Correggio più femmineo e ambiguo, quello di Giove e Io, conservato al Kunstistorisches di Vienna, che per significato e ambientazione molto si avvicina alla visione veronesiana.

 

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Assai più prossimo a lui è invece il giovane Annibale Carracci (si ipotizza un suo viaggio di formazione nella città lagunare, presumibilmente intorno agli anni Sessanta), per un certo modo di raccontare con sovrana compostezza sacro e profano. Vivo, è anche il ricordo lontano di Lorenzo Lotto, per quegli elementi di semplificazione iconografica tipici del periodo controriformato, e per quella cifra schietta e vivace che li accomuna. Un gioioso marasma di impressioni, influenze, ipotesi, forse nessuna fondata; o molto più semplicemente un moto dello spirito, verso qualcosa che cresce dal profondo. Veronese muove la propria arte verso un’affettuosità di sentimenti tipica del filone profano della pittura veneta: Giorgione, il giovane Tiziano, Palma il Vecchio, i Bassano; anzi, esaspera l’aspetto più sensuale della ricerca pittorica e luministica, per dire di molti e non certo sottintesi moti dell’eros, che vagano entro e fuori la tela. La ‘maniera’, come fatto allegorico, in Veronese si fa gioco di piacere: non già la realtà rivelata del tardo Tiziano, fatta di sottilissima sofferenza, né l’ardire prospettico del ‘foreste’ El Greco, ma la giocosa misura del compagno e amico Antonio Palladio.

L’antico si svela in candide porzioni di colore, e la giusta misura diventa emozione. Il divino Paolo scrive di un qualcosa che appartiene da sempre al nostro museo d’ombre: ci dice di un’immagine da amare, oltre il tempo, con la voce dell’anima.