Situs sive Detritus
II. Ricordi?
di Maurizio Barberis
"Quando vedevo un oggetto esteriore, la coscienza ch'io lo vedevo rimaneva tra me e lui, lo costurava d'un sottile orlato spirituale che mi impediva di toccarne mai la materia direttamente. Essa si volatilizzava in un certo modo prima ch'io ne prendessi contatto, come un corpo incandescente che si avvicina a un oggetto bagnato, non tocca la sua umidità perché si fa sempre precedere da una zona di evaporazione.." ( da Marcel Proust, La strada di Swann,)
La parola latina "situs" ha molteplici significati. Tra i principali oltre a quello di luogo, ricordiamo quello di polvere, muffa, detrito, residuo. Il doppio significato di situs ricorda quella sottile striscia di sabbia che il mare e la terra hanno in comune, e che l'acqua occupa con l'alta marea e abbandona con la bassa, ritraendosi e lasciando al suolo depositi di piccole conchiglie morte, oggetti di plastica colorata, pezzi di legno consumati dalla risacca, tutte cose che spesso vengono raccolte e conservate dai bagnanti, trasformate in un souvenir a buon mercato. Possiamo osservare, con certa sicurezza, l'opera del mare grazie alle tracce residuali che troviamo sulla battigia.
I residui dunque alimentano le certezze del passato grazie ai ricordi, essendo legati da un lato a un luogo e dall'altro a quello che di un luogo possiamo ricordare.
Nel Fedone Socrate traccia la sua teoria dell'anima. E' il ricordo la chiave di volta della sua dimostrazione dell'immortalità, il ricordo come rammemorazione delle vite precedenti, il ricordo come maieutica della conoscenza. La vita, come la marea, quando si ritrae lascia sulla sabbia tanti piccoli residui, che rappresentano da una parte la memoria di ciò che è stato, dall'altra il seme della vita futura. La dialettica tra la vita e la morte è compensata dal residuo di memoria che la prima lascia beffando la seconda. Il ricordo, in quanto residuo, si oppone all'omologazione del presente, all'ineluttabilità della morte.
Se volessi pensare alla fotografia come a un'arte applicata, dovrei anche pensare al suo specifico oggetto, alla 'conditio sine qua non' che la rende tale. Se un vasaio realizza un vaso, per quanto bizzarra possa essere la sua forma, deve sempre rispondere ad una funzione specifica, il contenere. Un fiore, dell'acqua o dei cioccolatini, non ha importanza, basta che contenga qualcosa. Così per la fotografia: ciò che rende la fotografia arte applicata è la funzione della 'mise en scene' del ricordo, con tutto quello che ne può derivare. Ha bisogno di un soggetto, ma il suo soggetto non sarà mai il qui e l'ora della rappresentazione (come nel caso del teatro, p.es.), ma sempre il passato proiettato verso il futuro. La nostalgia e la speranza chiudono il cerchio magico del ricordo come forma maieutica del sapere. E' la prova concreta del nostro essere nel mondo. Ciò che dice e ridice infinite volte, che noi siamo stati e che, con un poco di fortuna, saremo ancora, è la testimonianza di un passato di cui solo noi siamo protagonisti e l'espressione del desiderio che questo passato possa ritornare.
Ma è solo grazie alla fotografia, alla sua concreta applicazione nel mondo delle cose, che il nostro passato si fa oggetto e diventa finalmente il qui e l'ora, il sempre presente in quanto 'fotogramma', misura della luce. La vita quindi non cessa mai e noi, grazie all'immagine fotografica, possiamo condividere un poco di quell'immortalità il cui segreto gli dei custodiscono con estremo rigore.
Ma è soprattutto l'idea residuale che ci consente di considerare la vita come un eterno fluire, dove la dialettica del solve et coagula non cessa mai di far girare la macina, grazie a quella piccola particella di imperfezione che le vite passate inevitabilmente lasciano alle loro spalle, a quel piccolo resto che per quanto microscopico sia ci permette di ricominciare ogni volta da capo. Quando la vita si sottrae è solo il residuo dei nostri ricordi ciò che ci rimane e ci consente di considerare il vuoto che abbiamo di fronte come potenzialmente pronto ad accogliere una nuova esperienza. Si potrebbe dire che sul ricordo si fonda il tentativo, quasi sempre riuscito, di far rivivere una nuova esistenza, quasi il ricordo fosse un'evocazione teurgica, un rito sacro che ci consente di evocare dagli abissi la dea della vita. Il ricordo è il fantasma su cui si fonda l'intera successione di tutte le nostre esistenze.
Se il residuo è un'imperfezione attraverso cui il ciclo si deteriora senza mai esaurirsi, ecco che dalla Zohar, dal libro della luce dei cabalisti ebraici ci viene un piccolo aiuto a migliorarne la comprensione. Il residuo è assimilato all'idea del male, poiché viene indicato come ciò che rimane nel mondo dell'ira divina, e che al suo ritrarsi acquista autonomia e antinomia, ovvero si oppone come male alla sopravivenza del bene. Sempre di un'onda si tratta, sempre di qualcosa che resta alla fine di un ciclo, pur anche sia un ciclo distruttivo. Il diluvio universale per esempio. O quello che i cabalisti chiamano 'la luce senza pensiero', la forma perfetta della morte.
Da questo residuo, dal suo rendersi fatalmente autonomo dalla forza che lo ha generato e da cui proviene, nasce l'idea e la certezza della presenza del male nel mondo. Al ritrarsi della manifestazione divina, come al ritrarsi dell'onda, sul terreno sabbioso della vita restano ancora le scorie, la memoria di ciò che è stato, e sulla base di questa memoria il mondo agisce, come la morte che segna per sempre l'esperienza della vita. Se l'uomo fosse libero dall'idea della morte le sue azioni sarebbero improntate a pratiche morali profondamente diverse. Come per altro dimostrano tutte quelle vie che hanno come obiettivo la liberazione dell'essere umano, più che la sua divinizzazione. Il male non è dunque altro che il residuo distorto e crepuscolare dell'immagine della nostra esistenza, che copre la vita come la polvere ricopre la forma delle cose e ne segna la presenza anche quando queste non ci sono più, ne traccia il profilo, il negativo, appunto, sulla lastra sensibile della nostra memoria. Quella traccia polverosa ci perseguita con puntigliosa insistenza per dirci continuamente di ciò che non c'è più, ma che con maligna coerenza rifiuta di uscire per sempre dalla nostra vita, regalandoci finalmente il lusso dell'oblio. Il male si incastra perciò nelle nostre vite attraverso il residuo, o meglio, attraverso la necessità di far rivivere il passato grazie al ricordo, in una sorta di ritualità perversa, o meglio sarebbe dire di scongiuro perenne e blasfemo, che nel suo apotropaico gesto finale sembra più voler allontanare il pericolo del futuro che far rivivere le glorie del passato, con un 'ansia di immortalità che ci vuole simili a dei e di cui faremmo volentieri a meno. Dio ci liberi dal desiderio di Dio.
Fuori dal tempo. Ecco che allora la fotografia assume un ruolo importante, in una sorta di catarsi liberatoria che consente di eliminare, attraverso un uso sapiente delle immagini, questa cinica emanazione del reale, per esorcizzarlo attraverso una forma che non evochi più, ma che si presenti come un tempo dilatato, senza un qui e senza un ora, oltre quella storia che ne rende la percezione iniqua. La fotografia diviene l' immagine programmata del nulla, di un vuoto non più carico di aspettative messianiche che forse può aiutare a evocare ancora una volta lo spirito, come un residuo di vite passate che si affacci dal cielo delle idee per illuminare i silenziosi sentieri del nostro eterno cammino.