Codice. Roberta Orio
di Carlo Biasia
Roberta Orio nasce a Venezia e si forma a Milano, fotografa. Dal 1987 lavora con istituzioni pubbliche e private, seguendo un percorso che si fonda sul tema del codice, della comunicazione e del messaggio. Un dialogo quindi tra codici e appunti, per Hoperaperta, nel quale l'artista racconta la sua visione sulla rappresentazione e sul “puntcum” di vista.
CB:Progettazione grafica e cultura dello sguardo sono, più che la fotografia, le premesse della tua formazione. Ti ritieni più una fotografa o un’artista? E’ la fotografia una forma d’arte, a parere tuo, o una formazione della tecnica?
RO: La fotografia è un linguaggio e come tale è ovviamente una forma d’arte! La tecnica è parte integrante in ogni disciplina. Sta al sapere di colui che la usa, trasformarla nel punto di forza del proprio linguaggio. Fotografia e grafica sono discipline che convivono, si integrano, a volte l’una è nell’altra. Mi piace pensare alla fotografia come forma di scrittura con la luce, dove questa rappresenta l’elemento intangibile che la rende possibile. La grafica è la forma di scrittura dell’immagine. Come in fotografia, così nel progetto grafico, i bianchi, i neri, i grigi, il colore, rappresentano i silenzi, i rumori, le pause, i codici identificativi dell’immagine. Non ho mai pensato e non ho mai sentito differenza alcuna tra l’essere una fotografa e/o un’artista. Io sono! Del resto non mi occupo e tanto meno me ne preoccupo. Io sono quello che faccio: mi sento di poter dire che i miei lavori sono la rappresentazione di me stessa in quel preciso momento. Se questo è essere fotografi o artisti, non lo so. Per me non fa differenza. Direi che stare ancora qui a discutere se la fotografia è arte oppure no, è retorica. Ci sono artigiani e ci sono artisti. E’ alquanto difficile essere degli artisti senza essere degli straordinari artigiani. Al contrario, si può essere degli artigiani eccezionali senza alcuna velleità artistica. La differenza sostanziale sta nella capacità di “messa a fuoco", nella forma espressiva scelta, e nel possedere la forza di trasformare la fotografia da semplice immagine a comunicazione.
CB: come fotografa hai inseguito percorsi di luoghi che hanno una forte connotazione storica, penso a Venezia o a Milano. Come è stato riuscire a fotografare il silenzio spaziale di Venezia ai tempi della pandemia?
RO. Sono nata a Venezia e ho studiato a Milano con Maestri che finalmente mi hanno fatta sentire a casa. La corrispondenza tra città che in quegli anni si è creata è la mia ricchezza, il mio punto di forza, la mia centratura, la mia messa a fuoco. Il primo lock down è stato l’unico momento in cui sono riuscita a fotografare la mia città, Venezia, finalmente ritrovata, nella memoria di un tempo ormai passato, dove i silenzi, i suoni, gli odori, tutto aveva un senso, un ritmo, uno spazio. Non più inghiottita da orde di turisti, ma come una raffinata presenza, l’ho scoperta nella sua posa naturale e uguale a sé stessa, l’ho riportata in immagine. Ricordo l’eccitazione che ha accompagnato quegli scatti, perché la città era la stessa di quando da ragazzina, alla ricerca di nuove prospettive, mi allontanavo troppo da dove mi era concesso giocare. E’ stata una grande occasione per il mio sguardo, ritrovarla è stata un’esperienza indimenticabile.
CB: nelle tue opere, il “codice”, sembra avere un significato molto importante nella costruzione di un linguaggio. Vuoi raccontarmi cosa intendi tu per codice?
RO: Il codice è la chiave di lettura e quindi la possibile visione di una personalità, sia che si tratti di luoghi, di oggetti, di persone. Il codice è il pass per poter accedere alla storia di ognuno. La storia è in ogni cosa, come l’aria, devi saperla sentire, per poterla raccontare. Quando fotografo mi metto in ascolto, isolo la scena, il resto svanisce, il tempo è sospeso, cerco, a volte attendo che il codice si riveli, e quando accade, è in quel preciso momento che l’immagine si trasforma in fotografia. Il codice è ciò che Roland Barthes definisce il Punctum. Questo per me è il Codice.
CB: appunti: alcuni dei tuoi lavori, li hai intitolati “appunti”, come qualcosa di preso velocemente ma con molta attenzione, quasi a fissare istantaneamente un significato. In fotografia, cosa significa per te prendere appunti?
RO: Ho sempre pensato che l’istintività degli appunti riveli passaggi fondamentali, Ci sono momenti nella vita dove il tempo a disposizione è pochissimo, è un attimo, e ciò che si ha la necessità di dire è la spinta determinante a fartelo realizzare nel tempo di un appunto! La fotografia, nel suo codice istintivo, diventa come prendere nota di una luce istantanea, fondamentale, veloce.
CB: Nella serie “ritratti” rappresenti camere d’albergo vuote, nelle quali sono presenti le tracce di uomini e donne. Il ritratto, per te. È anche ciò che resta del passaggio?
RO: Il ritratto per me non è necessariamente la rappresentazione dell’intera figura umana, se ci pensi infatti Kult è costituito da una serie di dettagli, di parti, di “punctum” isolati dentro il formato fotografico che poi faccio esplodere in stampe di grande formato. In Identità, ritraggo persone nei loro ambienti privati e di lavoro negandogli, con un taglio netto, la parte fondamentale al riconoscimento, ossia il volto. Con il lavoro Ritratti, mi spingo oltre la fisicità del soggetto e ritraggo luoghi che emanano, attraverso un passaggio avvenuto, una fisicità impalpabile ma fortemente presente nella scena. Ciò che rimane negli ambienti che ritraggo, sono testimonianze di un’identità impressa nei dettagli di una stanza.