«Non ricusate di avvicinarvi». Ritratti, pose, ritrosie
di Michela Davo
Senza cognizione dell’illustre tradizione a cui avrebbe dato vita, nel 1786 Vittorio Alfieri scrisse il suo celebre sonetto autoritratto, pubblicato nella prima sezione delle Rime. Il dialogo con il sublime specchio di veraci detti si sarebbe, di lì a poco, insediato negli animi di due giovani poeti di orientamento democratico (entrambi cultori del tragediografo astigiano): Foscolo e il sedicenne Manzoni, autori, nel 1801, di due componimenti analoghi.
Se è evidente un ascendente nei confronti dell’archetipo alfieriano, quantomeno nella sostanza tematica, è tuttavia isolabile una sorta di interdipendenza dei sonetti tra loro, perspicua nelle scelte lessicali (debitrici, in prima istanza, a quelle petrarchesche), nello schema metrico, nel grado di realtà della narrazione (in tutti e tre i casi, la descrizione procede dall’esteriorità all’interiorità), che, seppur inquadrabili all’interno di un canone precedentemente condiviso, non mancano di lasciar spazio alle peculiarità stilistiche di ciascun autore: [...] irato sempre, e non maligno mai l’Alfieri; [...] spregio, non odio mai dice di sé il Manzoni; [...] pronto, iracondo, inquieto, tenace l’italiano nato greco, che, nella sua posa eroica, sembra aver corrisposto a quella «donchisciottesca immagine» di sé citata in una lettera alla contessa d’Albany. Ci sarebbe potuto essere, idealmente, un quarto interlocutore in questa “giostra poetica”, Giacomo Leopardi, che, nei Ricordi d’infanzia e d’adolescenza, in qualche modo rifiuta l’invito degli altri tre: «io allora non mi specchiava».
Nel 1816, Joseph Nicéphore Niépce, riuscendo a immortalare parte del suo studio, segnò un passo importantissimo per lo sviluppo della futura fotografia, perfezionato da Louis Daguerre poco più di dieci anni più tardi: l’autoritratto, per secoli appannaggio di pittura, scultura e poesia, troverà nuove forme di rappresentazione, modificando sensibilmente i metodi descrittivi del sé, nonché la riflessione attorno all’immagine.
Il ruolo che la fotografia avrebbe giocato negli anni a venire è testimoniato, tra i vari esempi ravvisabili, nelle raffigurazioni dei soldati al fronte nella Prima guerra mondiale e nella loro cifra emotiva. Il 23 aprile del 1918,
Enrico Gadda incontra la morte in seguito a un incidente aereo avvenuto al fronte: al più noto fratello, Carlo Emilio, la sua sorte sarà tenuta doviziosamente nascosta dalla madre, Adele Lehr, e dalla sorella Clara sino al gennaio 1919, quando, di fronte al ritorno a casa del giovane, in via san Simpliciano a Milano, non sarà più possibile protrarre gli infingimenti epistolari. A una lettera indirizzata alla signora Gadda, in data 17 maggio 1918, il sergente Eriberto Marchesi, facendo riferimento al funerale di Enrico, non manca di allegare qualche fotografia scattata in prima persona durante la cerimonia, consapevole sì della capacità dell’immagine di «rinnovellar disperato dolore che il suo cuore preme» (frase, per altro, esplicitamente allusiva all’Eneide, Enea a Cartagine che racconta, e alla Commedia, Ugolino, If, XXXIII), ma ancor di più del ruolo consolatorio a cui questa avrebbe dovuto assurgere: «[...] ma penso che il vedere la manifestazione di sincero compianto che è stata tributata al suo povero Enrico, possa esser per lei di qualche conforto». La capacità del rituale antico di purificare dalle sofferenze appare in certo modo trasposta nella possibilità di conservare e reiterare un rito, tradotto in immagine, al quale non solo non è stato necessario partecipare direttamente, ma che si può rinnovare continuando a porvisi a distanza, senza realmente averne mai preso o prenderne parte.
Una selezione delle numerose fotografie dei fratelli Gadda in guerra è stata recentemente pubblicata all’interno del volume La guerra di Gadda. Lettere e immagini (1915-1919), Adelphi, Milano, 2021. Anche in anni più adulti, per quanto timido e ombroso, Carlo Emilio Gadda non evitò il flash delle macchine fotografiche (arrivando addirittura, in un’intervista del 1953 per l’assegnazione del premio Viareggio, a sostenere che i fotografi avessero con i loro flash sostituito la luce del sole, e che lui non avesse potuto sottrarsi ai loro occhi: «Mi hanno fotografato 800 volte, quasi fossi stato re Fuad. È il peso della gloria»), né gli occhi di amici pittori e artisti che scelsero di ritrarlo. In un suo intervento ne I quaderni dell’ingegnere.
Testi e studi gaddiani (4), Dante Isella, grazie all’aiuto di amici e conoscenti, ha potuto pubblicare 15 ritratti di Gadda, ognuno corredato da una scheda d’approfondimento. Alcuni di questi dipinti si inseriscono nel quadro di più complessi rapporti, spesso d’amicizia: è il caso del ritratto confezionato da Adriana Pincherle, che intrattenne per anni, insieme al marito Onofrio Martinelli, una consuetudine– poi raffreddatasi – con lo scrittore della Cognizione. Nel 1934 Gadda vinse il premio Bagutta con Il castello di Udine.
Un anno dopo, Giorgio Tabet, autore di molti dei dipinti esposti nel celebre ristorante milanese, sede della kermesse letteraria, lo ritrasse di profilo, nel suo solito e inconfondibile stile. Tra i ritratti illustri figurano anche quello di Leonardo Sinisgalli, direttore di una rivista («Civiltà delle macchine») a cui Gadda collaborò con qualche intervento, condividendo con il lucano la sorte di ingegnere-letterato; due ritratti, datati 1960, a opera di Leonetta Pieraccini Cecchi, moglie del critico Emilio Cecchi; il disegno a matita di Nino Tirinnanzi: in occasione di una mostra dell’artista a Roma del 1949, Gadda scrisse un breve testo di presentazione (Tirinnanzi, attualmente pubblicato all’interno del volume Divagazioni e Garbuglio, Adelphi, Milano, 2019), confermando ancora una volta il suo interesse critico per l’arte (si vedano anche il saggio Per Filippo de Pisis, pubblicato per la prima volta in «Critica d’arte» nel 1988 e Autografo per Giorgio de Chirico, apparso su «L’Ambrosiano», 1938). Un posto d’eccezione, per autore e arditezza dell’analogia, merita, poi, il ritratto firmato da Carlo Levi, che ebbe a riconoscere nei tratti di Gadda una sinistra somiglianza con Hitler, salvo registrare con ironico sollievo che l’amico «per fortuna possedeva una penna, non le armate tedesche».
Quel che stupisce, dopo tante immagini, fotografie e ritratti, è la timidezza della parola: riverente con gli intervistatori, ma sempre sfuggente e spesso allusivo, a tratti paranoico, soprattutto in tarda età, Gadda arrivò a chiedere a Giuseppe Grieco, nel 1969, di essere lasciato nell’ombra («[...], minimizzi, minimizzi. Se proprio vuole parlare di me mi tenga basso, ho tanti nemici pronti a saltarmi addosso per una parola di lode. Devo difendermi»), quasi segnando un solco profondissimo tra il ritratto figurativo e quello, più intimo, disegnato dalle parole.