Paola Marzoli: da vicino.
di Andrea Schubert
Ho fatto la prima mostra personale di Paola Marzoli nel 1979, alla Galleria Schubert, e in questi trenta anni ne ho seguito il percorso e visto le opere ‘da vicino’. Dal mio particolare punto di vista non posso non essere colpito da come negli anni la materia pittorica sia cambiata fino a giungere al risultato finale dell’ultimo ciclo di dipinti. Non è credibile che nell’opera di un’artista completa e colta come Paola Marzoli ci possa esser qualcosa di casuale. Il cambiamento di soggetto è sempre conseguente ad un cambiamento di condizione vitale e a un’attenta riflessione analitica. Si è visto come la sua cultura l’abbia spinta a cercare conforto nei grandi passaggi della storia. Si è visto inoltre come il suo spirito d’osservazione e la sua analisi formale l’abbiano spinta a cercare elementi compositivi da estrapolare dal contesto originario e ricollocarli nella propria rappresentazione del mondo, plasmandoli alle proprie esigenze espressive.
Ma in tutto ciò possiamo considerare la tecnica come risultato casuale, o studio asettico del modo di dipingere? Si può credere che la tecnica sia quell’elemento insignificante rispetto al contenuto per Marzoli, soprattutto dopo aver visto lo studio
formale che precede la creazione di un’opera (intendendo qui per opera un ciclo di dipinti) ? Può la tecnica essere considerata elemento neutrale rispetto al contenuto? Possiamo considerare sempre come soggetto dell’opera l’oggetto che essa rappresenta, oppure non sarebbe più giusto aprire uno spiraglio anche alla tecnica usata dall’artista
lasciandola partecipare alla rappresentazione finale dell’opera? E se la tecnica, non essendo più considerata elemento neutrale nella produzione dell’opera, potesse addirittura arrivare al punto di essere essa stessa il contenitore del messaggio dell’artista più di quanto non sia lo stesso soggetto rappresentato?
Non è necessario cercare risposte immediate a queste domande ma l’importante è porsele soprattutto quando l’intento è quello di creare un quadro sinottico che, in un processo evolutivo pragmaticamente diacronico, tenta di mostrare l’operato complessivo dell’artista coprendo un arco temporale molto ampio. Perché è proprio di un processo evolutivo irreversibile che stiamo parlando: la numerazione progressiva che scandisce la produzione di Marzoli è a tutti gli effetti interpretabile come una volontà di oggettivare l’irreversibilità della narrazione di una storia, la propria e del mondo che la circonda. Una storia che giorno dopo giorno può essere letta nei quadri, veri e propri frammenti creativi dell’esigenza comunicativa dell’artista.
Per poter vedere come e quanto la tecnica si sia modificata, basta un semplice confronto fra due periodi lontani nel tempo, che costituisce il gradiente evolutivo delle tematiche.
Osservando le opere degli anni 70 e 80 noteremo come esse fossero realizzate su supporti rigidi, alcune volte lavorati da altri, dove l’intervento dell’artista non nascondeva l’altrui lavoro, ma lo rispettava traendone significati ulteriori rispetto all’opera dipinta. L’atteggiamento potrebbe essere visto come quello dell’architetto che ordina all’artigiano un’opera e con rispetto dell’altrui perizia la colloca nella propria composizione. Gli armadietti, i leggii, dipinti in quegli anni, trovano sulle loro superfici stesure ad olio delicate e leggere: pigmenti non violenti che rispettano la vena del legno. E sulle tele di lino a grana fine il colore è steso in sottilissima velatura sfumando in ombreggiature appena accennate. Tali lavori appaiono molto differenti confrontandoli con le opere degli ultimi anni. Le recenti campiture nette che sottolineano passaggi di luce senza sfumature e mezzi toni, sono lontanissime dai morbidi panneggi che richiedevano adeguata morbidezza nella stesura del colore. Così come le pennellate quasi materiche delle lumeggiature sulle pietre dei templi greci contrastano con la materia sottile delle tavole trompe l’oil delle opere dei tardi anni settanta. E ancora, il disegno, la traccia costruttiva sottostante lasciata intravedere, il non finito che lascia lo sfondo intuibile e godibile del ciclo della fine degli anni novanta è ben diverso dalla completa copertura della superficie pittorica delle ultime tele.
Alcuni artisti lasciano al caso, ma io direi alla sapienza della mano che molto sa più della testa stessa, la scoperta dell’opera, in una sorta di automatismo psichico di derivazione surrealista. Così diceva Castellani a Carla Lonzi in un intervista pubblicata poi nel libro “autoritratto”: “un artista, quando comincia, io penso che non abbia tanti problemi, lo fa… abbastanza visceralmente, credo no? Perché gli piace, che so, manipolare certi materiali … usare certe tecniche.” Via via da un contenuto a questo fare … almeno, così è successo a me…”. Da questo frammento di discorso si evince come alcuni artisti si lascino trasportare “dall’estro”. Quell’estro che è l’insopprimibile voglia di fare e che li spinge anche a prescindere dalla “forma” con cui fare, seguendo maggiormente il “sentimento” che scaturisce dalla frenesia artistica. Un modo di fare che vede evolvere lo stile e il contenuto delle opere in maniera prevalentemente sincronica con una selezione naturale di quanto non sia ritenuto valido dall’artista. Un’evoluzione naturale, questa, connotata da ritorni e ripensamenti, in attesa di trovare quella “cifra” connotativa e quello schema forte e personale in grado di dare il contributo fondamentale all’evoluzione della storia dell’arte.
Ma questo comportamento non può essere preso necessariamente a norma. Nessuna norma può applicarsi oggi al fare artistico. La riflessione e la “forma” nulla possono e debbono togliere al sentimento dell’artista che maggiormente
si sente incline a studiare e “progettare” il modo in cui esprimersi, sia per quanto riguarda i contenuti sia per il modo di realizzarli.Contenuto e tecnica di rappresentazione viaggiano in simbiosi anche in artisti che fanno della metafora lo strumento privilegiato della loro arte. Che l’arte sia presentativa e non rappresentativa potrebbe essere già un dato provato, ma vale sempre la pena richiamare questo aspetto ogni volta che si cerca di inquadrare, all’interno del caos evoluzionistico delle arti figurative, l’opera di un artista che usa mezzi tradizionali rappresentativi, ignorando ogni forma di presunta modernità esclusivamente presentativa. Il presunto primato presentativo dell’arte aniconica si fonda su un falso presupposto che ignora un aspetto fondamentale della tecnica. Se consideriamo la tecnica come l’abilità di ottenere degli effetti sensibili o emozionali, nell’interesse della trattazione, allora si capisce come non possa essere considerato ozioso porsi la domanda di come questa si sia evoluta nel lavoro della Marzoli.
Quale elemento conscio od inconscio l’abbia spinta a diluire il colore in alcune opere (o ciclo di opere) ed ispessirlo in altre, cosa l’abbia spinta a lasciare ombre dure o sfumate, cercare superfici lisce o scabre, rimane una domanda senza risposta, ma porsela significa cercare di cogliere nel ‘segno’. Questo perché ogni elemento compositivo contribuisce alla costruzione della metafora costituente l’opera stessa: costituisce cioè l’elemento estetico che supera l’apparenza e ci pone di fronte al nostro personale problema del “cosa significa?”. La tecnica, come abbiamo detto, è l’abilità di ottenere degli effetti emozionali, e se qualcuno arriva a porsi questa domanda, allora l’opera ha già raggiunto il suo scopo.
Tracciando un breve riassunto potremmo sintetizzare il processo evolutivo per passi “discreti” e non come movimento fluido di evoluzione continua. Considerando il periodo che intercorre tra la fine degli anni 70 e la metà degli 80 noteremo come Marzoli persegua una pittura che potremo definire da “leggio”. Le sue opere sono di dimensioni contenute, si nascondono dietro le ante di armadietti o si appoggiano su tavoli come i libri sui leggii. Le citazioni colte si consumano sulle pagine dei libri dipinti. I contrasti tra materiali “duri” come il legno e “leggeri” come la carta appaiono caratteristiche evidenti di una ricerca la cui sottigliezza non è immediatamente coglibile. Così come alludono ad un altrove senza dichiararsi il filo rosso che serpeggia nei quadri, come anche le prospettive, la ricerca della “misura” ideale, e quel rapporto delle dimensioni auree che nella tradizione doveva essere mantenuto a tutti i costi nel “bel dipingere”. Poi, sempre in quegli anni, le architetture si animano e dall’interno si comincia a intravedere un esterno.
Un’apertura verso una porta da cui uscire e la pittura acquista materia. La vegetazione non è più semplicemente velata ma viene rappresentata con colore più spesso. Il tratto diventa energico quasi che l’energia della natura non potesse essere che rappresentata dal vigore del colore e dallo spessore della materia, mantenendo un contrasto con il manufatto architettonico, quasi apparenza di sogno, di intonaco liscio e colore vellutato. Tale delicatezza, quella dei muri, la ritroviamo tra la seconda metà degli anni ottanta e la prima metà degli anni novanta. Colori gessosi, sbiaditi, quasi memorie di affreschi slavati caratterizzano le opere della mostra "Viaggio alle madri”. Le immagini si sovrappongono, si affiancano. La “Historia” di Leon Battista Alberti diventa una narrazione a più trame. Story board di filosofia, che emergono dalla memoria, lavati dal tempo. La storia, la metafora, in ogni singola pennellata assume “spessore in se” e perde materia pittorica. Un ritorno al disegno. La quadrettatura traspare sotto la materia leggera, quasi acquerellata. Il soggetto appare “studiato”, proposto come studio, o ‘memoria’ di studio. Una pittura da cavalletto, meditata e volutamente mostrata come indagine sulla pittura.
Finisce il secolo e l’indagine procede. La tecnica muta, cambia e si rinnova. La densità del colore aumenta, l’attenzione si concentra su parti di edifici monumentali o frammenti archeologici. La pietra rappresentata, sia che venga estrapolata dal contesto, sia inserita nel complesso archeologico, inizia a presentare lumeggiature materiche decise, pennellate vigorose a rappresentare la ruvidezza del soggetto rappresentato e, forse, del soggetto rappresentante. Il contrasto con le pareti degli edifici intonacati appare evidente. Sono sempre superfici dure, ma osservate in maniera notevolmente differente. La superficie non è più un piano astratto, ma diventa materia densa di accidenti: diventa l’oggetto dell’indagine e la tecnica si adegua alle esigenze. Nelle opere ‘greche’ Marzoli parte da fondi scuri aggiungendo luci. La pittura è densa, l’olio non viene diluito. Il dettaglio inizia a formarsi dal “gesto casuale” del pennello sulla tela guidato solo dalla sapienza della mano. L’intento progettuale rimane, sia nella composizione che nella scelta del taglio, l’esecuzione invece accetta il rischio dell’errore del movimento della mano ormai sapiente ed abile. Il nuovo millennio vede un ulteriore variazione. Una pittura che definiremo frattalica inizia a far intravedere la propria natura già nei tronchi d’ulivo per procedere in successive zoommate su materiali di vario genere e varia natura. Una sorta di scomposizione e ricomposizione della materia. Un processo di affinamento, di sensibilizzazione. Marzoli sperimenta su differenti soggetti la propria tecnica. Arriviamo ad oggi. Le nuove opere dove la pittura frattalica ci sorprende. Il taglio della composizione cerca visioni prospettiche ortogonali ai sassi che rappresenta. Il quadro disceso dal cavalletto viene eseguito in piano, anche per opere di grandi dimensioni. Si assiste alla negazione, o forse sublimazione, delle prospettive cercate negli anni settanta e delle proporzioni auree tanto agognate. Abbandonata la necessità del punto di vista centrale e della misura rinascimentale, scartando le suggestioni impressive ed espressive ottocentesche, la materia si declina per un suo ordine labirintico interno. Siamo di fronte al nuovo capitolo e ancora non abbiamo trovato risposte alle domande iniziali, ma abbiamo posto i presupposti per poter guardare le opere: vederle veramente nel loro farsi.
Paola Marzoli, Architetto ha partecipato alla cultura milanese negli anni '70 ( ha insegnato al Politecnico nel gruppo didattico di Aldo Rossi, fatto parte della redazione della rivista Controspazio di Paolo Portoghesi, partecipato con un progetto premiato al concorso per il cimitero di Modena, collaborato per l'immagine al teatro d'opera di Bruxelles).
Dal 1974 ad oggi, volgendo il suo interesse alla pittura ha esposto in mostre personali a Milano, Roma, Firenze, Parigi, Bruxelles, Mannheim e al Museo d’arte di San Paolo in Brasile. Dall'inizio degli anni '80 si occupa di psicoanalisi.