Leçon de Ténebrè
di Maurizio Barberis
“ ..parlerò per chi è lecito - voi profani chiudete le porte - e farò conoscere i pensieri di una sapienza teologica con i quali uomini, mediante immagini congeneri ai sensi, raffigurando realtà invisibili in forme visibili, rivelarono il dio e le potenze del dio a coloro che hanno appreso a ricavare dai simulacri, come dai libri, ciò che vi è scritto riguardo agli dei….
Nessuna meraviglia che i più ignoranti considerino le statue pezzi di legno e di pietra, proprio come quanti non capiscono la scrittura guardano le steli come pietre, come legno le tavolette e come papiro intessuto i libri...” (Porfirio, Dei Simulacri.)
Esiste una possibile salvezza attraverso lo sguardo? E’ il vedere una forma di gnosi?
E’ davvero l’àgalma, l’immagine intesa come simulacro, un dono consacrato agli dei, che a loro volta ci ricompensano restituendoci la salvezza attraverso la conoscenza?
Fotografare una statua: immagine di un’immagine che amplifica e reinterpreta, interiorizzando il dato oggettivo della Presenza, ne moltiplica gli effetti, dando per certa una verità assiomatica, ovvero la qualità noumenica dell’opera, che, viceversa, nel caso della statuaria ecclesiastica, appare come un semplice oggetto seriale privo di aura artistica, ovvero ripetizione standardizzata di un’immagine sacra.
Che cosa quindi, se non il ritmo del gioco dello spazio e del tempo, la trasformazione in tempo dello spazio o la riduzione a spazio del tempo, produce la magia della presenza?
Nel gioco di ombre e luci delle sommessa sacralità dell’architettura del tempio si dispone il Ritmo che rende assoluto il relativo:
ne homo separet quod Deus coniunxit.
Ed è ciò, questo ritmare della figura nel tempio, che la fotografia riproduce nella sua volatile essenza: l’immagine di un’immagine.