Quartet
di Patrizia Catalano
I°. Ugo La Pietra
Artista, filmaker, designer, performer. Degli anni ‘70 Ugo La Pietra ricorda la voglia di mettere tutto in discussione: “Erano anni in cui si rinnegava tutto, per costruire qualcosa di nuovo: ma la cosa che contava di più era l’impegno nei confronti del sociale. E dell’ambiente: i sessantottini rivendicavano un’architettura non globalizzata. Nel mio caso, lavoravo muovendomi tra arte e design – cosa che faccio ancora oggi –. Eravamo dei contestatori, ci definivamo degli “operatori estetici”, il che ci portava quasi a respingere l’identità professionale. Cercavamo l’eliminazione dello specifico disciplinare: si faceva architettura senza costruire, design con installazioni e i filmati, arte senza quadri a parete, e ancora oggi non mi identifico nello specifico disciplinare, mi riconosco in più ambiti. Il mio lavoro ha sempre avuto una componente concettuale, partivo da un pensiero e arrivavo a un progetto.
Se dovessi dire cosa manca oggi nell’ambito del design e del progetto, direi la componente del fare unita a un pensiero. Quello che io definisco l’ambito del “craft”, della lavorazione artigianale, di cui il nostro Paese era maestro e che si è andata perdendo a favore di una produzione più commerciale.
Negli anni ho lavorato a lungo recuperando tutta la tradizione artigianale italiana, compresa quella del mobile classico, un’operazione fatta in anni in cui nessuno voleva sentir parlare di manifattura artigianale. Questo lo paghiamo oggi, che abbiamo perso un importante momento di confronto: l’artigianato italiano contemporaneo ora è più un fatto di moda, ma non riesce a confrontarsi con il “craft” di altri Paesi come quelli nord europei, piuttosto che Giappone, Corea e Stati Uniti. In quei Paesi il “craft” si presenta come un sistema forte, con un mercato specifico, gallerie, musei, scuole, collezionismo.
Noi invece stiamo attraversando il momento più brutto del design italiano, e non riusciamo a vedere un futuro. Ci manca la cultura del prodotto e dei materiali, la cultura del fare. Peccato, perché c’è una vera forza che noi abbiamo e che gli altri Paesi non hanno, ed è la componente del pensiero, la capacità partire da un’idea ed elaborarla per arrivare a un manufatto. Il “craft” all’estero è un ambito disciplinare in un certo senso manierista, noi abbiamo sempre usato un criterio opposto: l’aspetto concettuale è nel nostro Dna e dobbiamo saperlo sfruttare”.