Rosso corallo: Jan Fabre a Napoli
Installazione permanente di quattro sculture in corallo rosso
Cappella del Pio Monte della Misericordia, Napoli
di Maurizio Barberis
Un monte, il Pio Monte della Misericordia, sette aristocratici e un dipinto, le sette opere della Misericordia, un pittore, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, infine Napoli, una città nel suo periodo di maggior splendore pietistico, il ‘600, la cui devozione produce un corpus straordinario di opere, il meglio della cultura pittorica italiana, almeno secondo il Longhi, grazie al lavoro di tre grandi come il calabrese Mattia Preti, il napoletano Battistello Caracciolo e, l’ovviamente fuggiasco, da se stesso e dal lontano Nord, Caravaggio. A lui la Confraternita, dopo averne protetto l’esodo da Roma, commissiona quest’opera magnifica, le Sette opere della Misericordia, denso coagulo di lezioni controriformiste.
Infine uno sponsale, quello tra Napoli e uno dei più bizzarri e anomali autori di quest’epoca, quel Jan Fabre suscitatore di scandali al pari del Merisi, in fuga, forse, dalla sua Anversa, dove è ricordato, tra le altre cose, per il clamore suscitato dal lancio di gatti vivi sulle teste di innocenti e inferociti passanti, a cui corrisponde, per un perverso gioco spirituale, la grande installazione nella Cattedrale, ‘the Man who bears the cross’, rimbalzata in una precedente occasione, per l’appunto, a Napoli, come una sorta di prequel dell’opera in questione.
Quanto sia denso il percorso di un autore come Fabre lo si avverte nell’apparente contraddizione tra il gioco delle crudeltà e la manifesta sospensione di un dubbio, la croce appunto, che organicamente apre ad altre possibili interlocuzioni. Dubbio che sembra precipitare in queste quattro sculture in corallo rosso, colore quanto mai carico di significati alchemico-spirituali (H.Corbin), che compongono una sorta di mandala virtuale all’interno degli spazi della cappella principale del Pio Monte, stabilendo un dialogo diretto non solo con l’opera, bensì col Caravaggio stesso, evocato da questa straordinaria tangenza, quasi un tantrismo inconscio, tra spiritualità cristiana e ritualità pagane.
Non basta il ricorso ad un evidente simbolismo cristiano per distogliere dal rimando alla spessa materia corporale (il corpo, questa ostetrica ossessione del Nostro) che disegna sull’orizzonte dell’Opera una speranza di vita oltre la morte, quella Pietas intesa come progetto finale della Misericordia.