Edward Hopper, Titano silenzioso
di Luca Violo
Essere abitati da uno spazio fisico ed interiore, che conduce a qualcosa che è altrove, è l’arcano del realismo di Edward Hopper, titano silenzioso della storia dell’arte del XX secolo, e superbo architetto degli archetipi della contemporaneità visiva, summa fantastica e misteriosa di classiche manifestazioni del sensibile ed astratte proiezioni concettuali. Lontano dai clamori e dai manifesti delle avanguardie artistiche del primo Novecento, è acuto testimone di una realtà che, disadorna di simboli, si mostra vitrea rappresentazione della solitudine umana.
Come Hermann Melville ed Edgar Allan Poe, che narrano la frontiera americana come spazio dove perdersi, per poi ritrovarsi al cospetto di una natura che è confine della civiltà, così Hopper, lontano epoche siderali dal bucolico equilibrio di Thomas Cole e dell’Hudson River School, non volge lo sguardo al placido disporsi del creato, ma alle linee di confine di un interno urbano, paesaggio interiore che si sostanzia in forma di luce.
Una pittura essenziale, modulata da impercettibili oscillazioni psicologiche ed estetiche, quotidiane e metafisiche, intimamente americane e acutamente europee, crogiolo rarefatto di due culture lontane e diverse, che nella corposa e vivida materia di Hopper trovano un intenso compendio.
Superata la fase impressionista la sua tecnica acquista maggiore dinamica ed espressività. Le linee di demarcazione tra luce e ombra diventano più nette, i colori più forti e ricchi di contrasti. Hopper sviluppa un procedimento che avvalendosi di prospettive, contorni e salti di colore, porta a scomporre le vedute in una rete di diverse impressioni ottiche.
Rurali o urbane le immagini di Hopper sono immerse nel silenzio, dove forte si coglie il senso di estraneamento del soggetto e dell’ambiente. Attraverso un sofisticato gioco di luci fredde, taglienti, artificiali, la scena, quasi sempre deserta, si compone con taglio cinematografico. L’immagine comunica l’assenza delle parole, e la realtà diviene verosimile rappresentazione di segni individuali del conscio e dell’inconscio, come la magica architettura dechirichiana vuota e spettrale, riflesso dell’angoscia esistenziale.
Agli antipodi rispetto alle provocazioni dadaiste di Duchamp e all’ottimismo futurista verso il progresso tecnico, che sogna infinite possibilità di sviluppo dell’uomo, le sue immagini mettono in scena il senso del limite. I quadri sono segnali di desideri fisici latenti, simulacri di esperienze e percezioni della società americana. Un percorso arduo e di assoluta integrità artistica e morale, che ci consegna uno spaccato dove l’eroismo si misura nel confronto con la sconfinata quotidianità.
La pittura di Edward Hopper, gli anni ruggenti di Scott Fitzgerald, il jazz, sono i passaggi cardinali per la costruzione di una ‘nuova coscienza’: non più gruppi etnici europei in terra straniera, ma ‘Americani’, sintesi centrifuga di culture diverse.