Il “difficile assunto”: Guido Cadorin
di Silvio Fuso
Ho promesso ai redattori della rivista alcune note sull'autobiografia di Guido Cadorin, inedita e conosciuta da pochissimi studiosi. l'occasione era offerta da un mio recente intervento all'Ateneo Veneto dedicato all'auspicato borgo delle arti dannunziano che a Venezia avrebbe potuto realizzare la straordinaria utopia di quella sintesi estetica così sentita in città nel primo dopoguerra.
Cadorin, in questa prospettiva rappresentava, forse, la figura più eminente assieme a Napoleone Martinuzzi, come lui intimo del poeta, e, come lui, guida di un folto gruppo di giovani "artieri". L'autobiografia di Guido (ben 164 pagine) mi è sembrata quindi un'inesauribile e preziosa miniera di memorie, considerazioni, informazioni cui attingere con rispetto, ma a piene mani. Per la comunicazione veneziana è stato in effetti così.....ma poi...adesso non so più: lo scritto di Cadorin va oltre e mi interroga sul senso stesso dell'arte contemporanea e sul suo significato pubblico, civile. Era mia intenzione infatti evidenziare quelle parti delle note autobiografiche dedicate ai suoi lavori di "frescante," di mosaicista e alle sue opere esemplari, sacre e profane.
A tal proposito avevo scelto tre episodi, tutti degli anni venti: gli affreschi della chiesa di Col san Martino in provincia di Treviso, quelli, famosi, dell'hotel Ambasciatori a Roma e, infine i mosaici dell'abside di san Giusto a Trieste. Ero certo che quanto scritto dal pittore avrebbe contribuito a smontare i pregiudizi metalinguistici e storici della critica spesso avara con l'arte di quel tempo(ringraziamo qui Germano Celant che con la sua ultima grandissima esposizione ha segnato un punto critico di non ritorno )". Volevo poi sottolineare la poetica di Cadorin, al contempo "leggera" e profondamente meditativa: e poi la vita artistica di quegli anni a Venezia...straordinaria e magnificamente descritta! Riflettevo su tutto questo quando ho avuto la ventura, si fa per dire, di vedere due puntate della trasmissione televisiva che Tomaso Montanari aveva realizzato, con la proverbiale perizia e dottrina, su Giambattista Tiepolo.
Il funambolico artista, amalgama ineguagliabile di splendide invenzioni rococò e sontuosa, metafisica decorazione veneziana, ha fatto irruzione nei miei pensieri: compimento definitivo della grande pittura e rivelazione di una modernità atemporale ( Calasso insegna) che guarda beffarda agli sforzi futuri. E tutto è facile per Tiepolo: non gli artisti per i ricchi, no, al contrario questi al servizio degli artisti, ottimi strumenti, e il suo circo di personaggi, a noi così superiori, impassibili attori in un cosmo dove pericolose fantasie e rigore immaginale fan tutt'uno. Mi è parso a un tratto che che tutto questo fosse noto a Cadorin e che lui la sapesse lunga su questo irraggiungibile passato e, quindi, sulle peripezie che lo attendevano a volerne riproporre i fasti. E nel passato iniziano i lavori per gli affreschi di Col san Martino: "un vecchio pittore da camere Gobbes di Motta di Livenza addetto a prepararmi i colori le terre che io, una vera mania, raccoglievo nelle vecchie botteghe-avanzi della Repubblica". Assistito da Astolfo de Maria e Bortolo Sacchi che vogliono "apprendere l'affresco" come un picaro d'altri tempi Guido parte "in armi" per "questo ignoto paesetto".
La vicenda pur tra michelangiolesche fatiche si conclude felicemente ed egli può orgogliosamente affermare: "amavo i bizantini ed amavo il Pordenone freschista nello stesso tempo, e, da questo connubio amoroso nacquero i miei tre affreschi del soffitto". Di un altro affresco per il soffitto della chiesa di Vidor nel trevigiano Cadorin ricorda soltanto "vita dura e difficile è l'assunto-faccio e disfo con molto coraggio". Per altro la carriera pittorica procede molto bene, ma il diario la sbriga in poche righe, sottolineando, più volentieri, gli aspetti corali, le collaborazioni con artisti e amici, compagni di ideali e aspirazioni.
Vedo che mi dilungo: la tentazione di seguire l'artista passo passo nella vita e nell'arte è molto forte, come non parlare del vate d'Italia?
Ma di tutti i luoghi che riguardano il lavoro per la camera di D'Annunzio (la famosa stanza del Lebbroso) e l'amicizia con il poeta ricorderò soltanto l'ultimo: "Lui voleva io rimanessi. Il mio zelo per impegni che avevo per affrescare male mi consigliò a partire" "per quell'infausto Moriago che tanti dolori mi dette"
Il fervore del dopoguerra si affievolisce; il sogno del borgo delle arti non si realizzerà mai o meglio, si concentrerà sul Vittoriale, opera d'arte totale, introversa e magnifica. A Venezia invece la vetreria Venini, proposta come sede del chimerico villaggio, sotto la ferma direzione di Napoleone Martinuzzi si appresta a divenire punto di riferimento internazionale per un "modo italiano" che segnerà il Novecento. E Cadorin lascia le Venezie, le chiese rovinate dalla guerra, le ville riportate a nuova vita, i sodalizi per le "arti applicate". La nuova meta è Roma dove ha l'incarico di "decorare a buon fresco il salone degli Ambasciatori nell'hotel omonimo in via Veneto". Committente il proprietario, Clerici, chiamato però dall'architetto Marcello Piacentini, archistar del regime.
La conoscenza con Piacentini è favorita dalla moglie dell'architetto, amica e ammiratrice di Guido e si "consolida" durante un tour con meta Gardone: Piacentini fa i capricci, non si presenta, D'Annunzio è "infuriato". Cattivi auspici.
Cadorin inizia i lavori "deve partire dal ricordo di uno stile settecentesco", ma , afferma "voglio i miei personaggi in abito d'oggigiorno-come fecero gli antichi"(Veronese?). Immediato scontro con Ugo Ojetti, altra star del tempo, vinto,per nostra fortuna, dal Nostro, ma "aspra battaglia" che non lo farà amare.
Si è scritto che la decorazione del salone rappresenta l'ultimo ciclo di affreschi privati in Italia, di certo, pur nella sua silenziosa bellezza, è emblema, per l'artista di una cocente delusione e sconfitta. I vivi, i ricchi, i potenti non sono più ottimi strumenti "...la Sarfatti mi dice senza ambagi: Fiammetta ed io vogliamo passare all'immortalità", e viene subito ritratta con la figlia, Giò Ponti arrivato a lavoro finito vuole tuttavia essere effigiato con il suo "cinico sorriso" e confida a Guido di non sopportare una vita mediocre "....troverò una ricca ereditiera etc. non dovette andare lontano a Milano sposò la Borletti"
Chissà se Guido negli anni seguenti parlando con Pirandello avrà fatto cenno a questi invadenti e stravaganti personaggi in cerca d'autore?
La Roma degli anni venti non è la Venezia del 500: Clerici e Piacentini non possono tener campo con Barbaro e Palladio. D'altronde lo stesso Tiepolo aveva arginato ogni invadenza con il suo potente serraglio di maghi orientali, gnostici e semidei.
Non ripercorro le vicende che hanno portato alla copertura degli affreschi: sono noti i sospetti sull'irritazione di Mussolini per il ritratto della Sarfatti o i pettegolezzi, le invidie romane, le trame che confondono e circondano l'artista. Tenta persino il processo(pare consigliato dal celebre ministro Rocco). Aldilà di tutto l'opera di Guido ha uno straordinario valore che giustifica prima gli sperticati elogi della Sarfatti poi lo zelo auto-rappresentativo di Ponti, un valore profetico che sembra anticipare il Novecento già intravedendone la precoce fine.
Realtà e stimmung abitano le pareti: una nuova <cronaca bizantina>spogliata di ogni calore, dove le agitate, mondane movenze si invetrano in una personale, distaccata eppur "magica" oggettività. Atemporalità simmetrica e opposta a quella di Tiepolo: principio di piacere e principio di morte. La novità non viene colta "vengo violentemente attaccato da un articolo sul <Selvaggio> a firma di Mino Maccari", "ciò dimostra la assoluta incomprensione della mia pittura e della mia rivoluzione che viene scambiata per semplice imitazione dell'antico". Era vero l'esatto contrario!
Le pagine seguenti del diario grondano amarezza, sono attraversate da dubbi e insofferenza per il milieu romano. Lasciata Roma e ritornato a Venezia ottiene la cattedra di decorazione "cerco di dare ai miei allievi un insegnamento rivoluzionario come fa il mio collega Guidi" "col tempo diventerà un mio assertore". Ancora l'insicurezza....la necessità quasi di condividere la sua difficile poetica con gli altri artisti.
1929: nuovo successo, nuovo incarico, vince il concorso per la decorazione musiva dell'abside principale di san Giusto superando, ma non ci saranno screzi o spiacevoli conseguenze, il triestino Guido Marussig, suo amico e sodale.
La vicenda è riportata in dettaglio da Antonio Maraini (il nonno di Dacia), allora potente segretario della Biennale veneziana, in un articolo scritto per la rivista Architettura, che merita di essere letto e si trova senza troppa difficoltà in rete. Anche il catalogo della mostra del 2007 dedicata a Cadorin dalla Querini Stampalia a Venezia analizza puntualmente il grande lavoro di san Giusto. Io mi limito a ricordare il consueto, estenuante impegno dell'artista per fondere esperimento espressivo e antichissime tecniche musive: "le difficoltà tecniche per risolvere lo stucco su cui lavorare mi fanno sudare-sudori freddi-tutte le tradizioni sono troncate. I libri poco o nulla dicono.....studio le opere antiche-ancora ho i ricordi di Roma e di Napoli poi Ravenna e Parenzo-Io subisco una rivoluzione nella mia visione"(parole scritte 40 anni dopo l'evento!)
È noto altresì che Guido non fu soddisfatto del risultato dell'opera, c'entra ancora l'avventura romana? "i ricordi degli studi dal vero notturni fatti dalla mia mente-durante il soggiorno romano per gli Ambasciatori-influenzano l'impostazione creativa della mia opera" O l'amicizia con Pirandello lo sovrasta? "con Pirandello che mi concede una stretta amicizia di un mese intero dal mattino alla notte-mi sembra di parlare con uno dei grandi filosofi greci". La nobile riservatezza degli uomini del tempo che fu ci impedisce, purtroppo di conoscere sia il significato preciso dei "ricordi degli studi notturni "sia quali fossero le parole scambiate con Pirandello "dalla mattina alla notte". Lasciamo la conclusione a Cadorin "peccato che non so assolutamente che posto dare a questa mia opera...anche il basamento che limita il mosaico non è adatto a far capire ciò che volevo esprimere-ma certo se non sono riuscito la colpa è mia" e "Qualche critico la definiva una grande occasione perduta. Può darsi sia così. Nel 1933 -esaurito nel modo più impressionante-mi concedo una crociera- l'unica della mia vita"
Checché se ne dica il mosaico di san Giusto è opera imponente e suggestiva, chi entra nella cattedrale viene accolto da un <tappeto fulgente> che vibra come un'onda (parole davvero ispirate di Gino Damerini), né bisogna dimenticare che Cadorin si confronta con gli straordinari mosaici bizantini delle due absidi minori della chiesa e che, come accennato, ha problemi con la nuova architettura della chiesa. Ed ecco il mio imbarazzo: dopo Trieste ci sono ancora circa cinquanta pagine di note(che si fermano comunque al 1938 per espressa decisione di Guido), sono interessantissime, ci narrano dei suoi successi internazionali, di incontri e relazioni romanzeschi, rivelano con spregiudicata sincerità le vicende più intime della sua vita......tuttavia...non c'è più l'arte o, meglio, la sua ascetica milizia. Cadorin pittore non si ferma qua, certo, lavora sino quasi alla morte e la sua è sempre grande pittura(dobbiamo a Jean Clair il pieno riconoscimento del suo valore). La sua profonda ispirazione/aspirazione è però, mi pare, venuta a mancare con la fine delle commesse di arte pubblica civile o religiosa, lo stesso uomo Cadorin è profondamente cambiato, ha abbandonato i vecchi ideali, tolstoiani o teosofici che fossero. E lui, prima, come un antico iconografo, viveva praticando astinenze severe e tecniche raffinatissime.
Credo in una profonda delusione. Dubitando però della mia opinione ho chiesto lumi ad un allievo e intimo di Cadorin (trasmissione diretta, insostituibile). Non soltanto ha confermato la mia convinzione, ma ha anche chiarito la natura nascosta degli ultimi formidabili lavori di Cadorin: opere che costituirebbero la felice e visionaria trasposizione nel quadro della pittura architettonica e monumentale a lui così cara e necessaria. Guido non ha tradito la sua rischiosa e ardua vocazione, ma, forse, la nostalgia del passato, il proprio e quello della sua amata città, lo ha in parte travolto ,nonché, di certo, indelebilmente e felicemente segnato.
"Dopo il pranzo, lasciando sole le signore, Gabriele mi invitò nel suo studio, a sinistra della biblioteca e passammo delle ore che anche lui disse indimenticabili. Anzitutto gli portai tutte le fotografie dei miei mosaici di S.Giusto che tanto ammirò ché volle tenere con sé."
Da una lettera a Domenico Varagnolo del 1938.