Tiziano Guardini: Shelter, la prima architettura è l’abito?
di Patrizia Catalano
Shelter significa rifugio, riparo, protezione. In un’intervista rivolta ad Alessandro Mendini gli chiesi quale era, secondo lui, l’architettura più vicina all’uomo. Mendini rispose con la laconicità che lo contraddistingueva (e che imparai nel tempo ad apprezzare): “la prima architettura vicina a noi è l’abito”. What else? Il tema dell’abito Shelter è rimasto per me come un mantra al punto che, ogni volta che mi capita di incontrare un fashion designer che, per poetica e sensibilità, progetta l’abito seguendo questa filosofia, non esito ad approfondire il tema.
Tiziano Guardini, fashion designer romano è la mia ultima recentissima folgorazione. Mi interessa sapere il più possibile del suo lavoro, per meglio capire per esempio, come diavolo gli è venuto in mente, quando era ancora esordiente, di progettare una pelliccia con aghi di pino. “Pellicce di aghi di pino e abiti in radici di liquirizia sono stati tra i miei primi lavori” racconta Tiziano “in realtà non avevo la volontà di creare una separazione tra la natura e quella che tu chiami l’architettura. Volevo che il capo, soprattutto in base alla scelta del materiale con cui l’avevo realizzato, fosse un elemento di connessione con la natura. Se ci pensi, le città sono state costruite dall’uomo per distanziarsi dal mondo naturale a cui apparteniamo. Usciamo dalla città per ‘immergerci nella natura’.
Ma questo è profondamente sbagliato: noi siamo natura. Quindi il mio progetto creativo punta a generare un’armonia e un dialogo con la natura. Un altro luogo comune che vorrei sfatare è quello che noi abbiamo bisogno di un rifugio. In realtà per me l’abito è la chiave per tornare a parlare con ‘il rifugio’ che è la terra intera”.
Il tuo lavoro, si dice, è orientato nella direzione dell’economia circolare, verso scelte a favore della sostenibilità: come ha avuto inizio tutto questo processo? “Io sono nato così. Da piccolo mi perdevo nella natura. Sono un romano doc e ho avuto la fortuna di abitare vicino a Villa Pamphili: quante volte mi è capitato di scappare nel parco popolato da magnifici alberi di pino. Era un modo di riconnettermi con il mondo. Pensavo a chi prima di me aveva vissuto l’emozione di stare sotto quelle fronde centenarie, e a coloro che verranno dopo di me. Questa società ci ha portato spesso a concentrarci su qui ed ora. Un narcisismo che purtroppo ci impedisce di capire che noi siamo in transito, siamo l’esito di atti compiuti da chi ci ha preceduto e, soprattutto, che abbiamo la responsabilità di lasciare le cose in ordine a chi verrà dopo di noi”.
Ecco quindi il senso del tuo lavoro e la necessità di operare in modo etico ed ecologico. “Con la differenza che quando ho iniziato a lavorare in questo ambito, circa dieci anni fa, per la moda i capi ecosostenibili erano sempre sottrattivi di qualcosa. Si seguivano le indicazioni che arrivavano i paesi nordeuropei, per cui tutto era sempre un po’ minimo, si usavano i beigiolini’ e mancava totalmente un senso ludico e scenografico alle collezioni. La mia storia di romano che ha vissuto una città unica al mondo e che fa parte del suo Dna, non poteva ritrovarsi in quei linguaggi. Ho scelto una direzione molto diversa”.
Racconta… “Io parto dal tema del rispetto della natura. Per esempio credo che prima o poi riusciremo a parlare con gli animali. E anche le piante, sono ‘soggetti’ come noi, che meritano rispetto, se non altro per tutto quello che ci danno. Per me lavorare con materiali a fine vita come gli aghi di pino raccolti a Roma per fare una pelliccia significa lanciare un messaggio chiaro di riconnessione col mondo naturale. Come lo sono ‘i quadri’ che faccio ora per i miei cappotti. Si tratta di pezzi unici che realizzo recuperando tessuti di archivio delle aziende tessili, quindi ogni volta i capi sono diversi, inoltre così lavoro sul tema della memoria, della storia di un progetto passato, non c’è nessuno spreco, ma recupero”. E’ un processo che richiede tempo e progettualità. Il mondo della moda, che viaggia sempre così veloce, come ha percepito tutto ciò?
“Molto bene. Ho ricevuto fin dall’inizio grande attenzione da parte delle testate internazionali, a partire dal New York Times, con un articolo che mi dedicò Suzy Menkes quando ero ancora esordiente. Quello che le raccontai, e in cui credo ancora, è che mia filosofia doveva solo essere indossata e vissuta. Per esempio, ancora studente, mi ero fatto una promessa: dovevo trovare il modo di non uccidere il bozzolo delle farfalle (che in genere viene bollito). Tradizionalmente si fa bollire il bozzolo per evitare che la farfalla uscendo spezzi il filo di seta. Il che è assurdo perché il filo del baco è lunghissimo, a volte è lungo addirittura un chilometro, quindi anche se spezzato resta sempre un filo molto lungo soprattutto se paragonato ai pochi centimetri del cotone per esempio. Trovavo atroce e barbaro questo processo, la scusa è che bollendo il bozzolo con il baco dentro si elimina la sericina che è la parte più ‘collosa’ che secerne dal baco, ma è tremendo. Ho pensato che si potevano benissimo unire fibre più corte evitando così di uccidere le farfalle. ‘Un giorno troverò una soluzione’, mi dicevo. E così è stato. In India la cultura della non violenza divulgata da Gandhi segue proprio questa direzione: lasciano uscire la farfalla e poi recuperano il bozzolo. E così ho iniziato a lavorare con la seta non violenta”.
Presumo che questa tua filosofia si estenda anche al tuo stile di vita. Come vive Tiziano Guardini? “Sono vegetariano, perché mi viene così, non voglio essere retorico, semplicemente pratico una filosofia della non violenza. Sono buddhista, ho trovato nel buddhismo una rappresentazione di quello che penso. A volte ti rendi conto di vivere all’interno di una società che non è facile, hai bisogno di essere temprato. In particolare mi rifaccio a un monaco buddista giapponese Dōgen, vissuto nel 1200 che prese la cultura originale del Buddha, i vari insegnamenti orali di Siddhārtha e tutti i sutra, come quello dello yoga, del loto e del nirvana dando una sua interpretazione. In quello del loto lui riconosce a tutti la possibilità di raggiungere la buddhità e questo è bellissimo. Noi nel quotidiano viviamo tanti mondi: la collera, l’animalità, la gioia. La buddhità si permea in ogni aspetto della vita. Il buddhismo crea dei valori e non energie di conflitto e grazie alla preghiera della mattina, ripetendola, è come se richiamassi a te queste energie”.
Oggi muoversi nel settore del fashion design è certamente molto complesso, se non altro per l’investimento di capitali che richiede. Come affronti il mercato? “Lo affronto a piccoli passi perché altrimenti rischio di perdermi qualcosa. Il mio progetto ha bisogno di tempi lenti e di ricerca di materiali. Il mio ‘rifugio’ lo costruisco cercando di essere il più onesto possibile. Ecco il senso dei Quadri, pezzi unici mai uguali. Piuttosto che della lana rigenerata o della seta non violenta che utilizzo. Si tratta di proposte che il mercato accoglie bene perché c’è ancora moltissimo da fare, non c’è problema di ‘scalabilità’. Questo mi aiuta a restituire alla moda il giusto valore. Si pensa che la moda sia facile ma è un processo complesso che per necessità di mercato corre veloce. E progettare un abito è affascinante ma molto complesso”.