Lo spessore dell’aria
di Silvio Fuso
Luci(fero) tra i grattacieli: così veniva definito Gennaro Favai in una sezione della mostra “Il demone della modernità”.
Un titolo efficace e preciso che coglie il legame indissolubile di luce e "contenuto, caratterizzando la pittura di Gennaro Favai, dove il meglio di de Maria e Zanetti Zilla, suoi maestri, si fonde in originale, felice, sintesi. Qui ci fermiamo, non è mia intenzione ritornare ad un approccio storico-critico dell'artista, l'esposizione a lui dedicata nel 2011 a Cà Pesaro oltre a sottrarlo ad un immeritato oblio è stata occasione per uno studio approfondito della sua opera e spero contribuisca, nel tempo, ad ulteriori auspicabili indagini.
Io invece vorrei tentare di avvicinare "sentimentalmente" le ultime opere del maestro: le sue anacronistiche Venezie così lontane da quel totalitarismo avanguardistico che, nel secondo dopoguerra, lui rimproverava alla Biennale. Un sopravvissuto della grande stagione simbolista? L'artista eccentrico che condivideva una sorta di esilio lagunare con il grande amico Ezra Pound?
Credo di no, la sua brillante biografia, la cultura, le sue relazioni cosmopolite smentiscono la figura di un artista nostalgico e blandamente reazionario. Gennaro stesso, sarcastico, occhieggia dal suo autoritratto programmatico, quasi a demolire tale debole ipotesi. Che parrebbe invece suffragata dal mio ricorso all'approccio sentimentale: occorre una precisazione, però, sentimentale non psicologico, attenzione. Il sentimento, in questa accezione, nasce da sensazione, emozione, espressione, strumento unico e necessario per trasmettere, in presenza, lo sguardo illuminante dell'artefice (non si dimentichi d'Annunzio) e si contrappone a ogni pratica concettuale o allegorica.
Questo corpo sensibile dell'arte è scelto da Favai per "rappresentare" la sua Venezia facendo ricorso agli strumenti espressivi della leonardesca prospettiva aerea, che bilancia, al contempo, verosimiglianza e statuto incerto della visione.
Lo spessore dell'aria, nella lezione di Leonardo, immerge la veduta, il paesaggio, nel colore dominante dell'atmosfera, quel blu-celeste eterico che Gennaro soffonde poi di un rosa tiepolesco. Favai costruisce però in verticale le atmosfere che trasfigurano la città d'acqua e cielo; si racconta che, per ritrarla, salga sui campanili più alti, li abiti, ma non basta, certo, vorrebbe farsi uccello, "cocal" (il gabbiano nel nostro liquido dialetto) e salire, salire…. O/A: la formula dello spessore visionario, olio in acqua, emulsione magra e ricetta segreta, giusto la catena degli alchimisti nostrani del colore, Laurenti, de Maria, Fortuny, Cadorin. Per tutti tecnica come prezioso veicolo di materia e spirito, inestricabile amalgama e felice fusione. E le "magre" emulsioni della pittura di Favai disfano le pietre di Venezia, la stessa conoscibilità figurale trapassa in una nuova dimensione di realtà. La citta si lacera, la superficie pittorica, come un inedito e moderno velo di Maia, rivela la fragile trama del visibile, alla fine rimane solo la luce simbolo e garanzia dell'arte di Gennaro, solitario alfiere di un antico modo: poetica di verità e bellezza.