Enzo Cucchi

di Maurizio Barberis

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Non so se Enzo Cucchi abiti ancora là, in quella strana casa studio, così diversa dalla sua personalità artistica. Conoscevo il suo lavoro attraverso le numerose mostre che in quegli anni di fama acclarata veniva facendo in giro per il mondo, ma poco ritrovavo del suo lavoro nello spoglio loft delle sua residenza romana. Pochi libri e soprattutto poche opere, quasi un pudore a mostrare ciò che gli apparteneva più d’ogni altra cosa, la sua arte.

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Un sito quasi monacale, a ribadire la distanza tra l’opera e la vita, che i suoi dipinti, intessuti di sogni, avevano forse bisogno di un intorno claustrale, privo di un inutile decoro e di distrazioni per l’anima.

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Ciò nonostante un silenzioso snobismo emergeva dai dettagli, le luci prive d’orpelli e una semplice scala in metallo, memoria di navigazioni virtuali, accompagnava alla camera da letto, ornata da un monacale lavello, simbolo di semplicità e perfezione al contempo.

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Ho incontrato Cucchi molti anni dopo, davanti ad una galleria romana, leggermente invecchiato, ma sempre blasé, a parlare d’arte, d’altra arte, con piglio da vero conoscitore. Naturalmente, passati quasi vent’anni, non mi ha riconosciuto. Ma non c’era alcun motivo perché questo accadesse.

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