A proposito delle fonti dantesche
di Michela Davo
È bello pensare a Penelope, in una qualsiasi di quelle notti trascorse a disfare la tela intessuta di giorno, al complice chiaror di mute faci, e chiedersi a che cosa pensasse, sciogliendo i nodi. A Odisseo, certo, e ai Proci lì fuori: forse, tra quei pensieri, s’annidava la cognizione che in quel fare e disfare fosse nascosta la chiave della conoscenza concessa all’uomo. Il marito e i pretendenti, come fili tra le sue mani, non si prestavano ad altro che a un intreccio, al suo scioglimento, a un rinnovato incontro, al giogo dell’attesa.
Uno sguardo teso sul Mediterraneo non può non notare come tutto sia il frutto di un incontro, talvolta preceduto da uno scontro, tra culture diverse e si abitua velocemente alla consapevolezza di come non vi sia un’unica architettura, un solo tipo di arte, uno stile, ma molti, a volte intrecciati tra loro, altre soltanto accostati, eredità di secoli e genti passate e presenti. Non solo: percepisce concretamente l’impossibilità di pensare al Cristianesimo senza ricordare l’Ebraismo e la fratellanza con l’Islam. Maometto, infatti, non ha mai preteso di professare una verità nuova, aliena al mondo, bensì di restituire l’autenticità originaria del messaggio di Abramo, come lui profeta, nascosta sotto agli errori dei suoi fedeli. Chi legge il Corano, vi ritrova il nome di una donna: Maryam, meglio conosciuta come Maria di Nazareth, madre di Gesù.
In qualche modo, tutto, come l’inganno di Penelope, è il risultato di un ordito: le scienze e la letteratura sono un gioco tessile, un continuo e costante legarsi, annodarsi, imbrigliarsi tra fili dissimili. Tra il XII e il XIII secolo, prevalentemente in Spagna, un’intensa attività di traduzione dall’arabo al latino permise la lettura, sino ad allora preclusa all’Occidente, di testi che sarebbero poi stati considerati, nella storia, occidentali: ci si riferisce a opere di Aristotele, Tolomeo, Archimede, Euclide e, con loro, di molti altri. Senza gli arabi, l’incontro tra gli occidentali e i loro padri non sarebbe avvenuto, non in quegli anni, quantomeno; la medicina, la matematica, l’astronomia e le altre scienze non si sarebbero evolute allo stesso modo.
Le Méditations métaphysiques di Cartesio, i testi di Pico della Mirandola, di Alberto Magno, di Tommaso d’Aquino e Ruggero Bacone (per citarne solo alcuni) sono fortemente imbevuti di rimandi arabi, islamici ed ebraici, oltre che occidentali e cristiani.
Credere che Dante fosse al margine di questo crocevia di incontri e scontri tra culture, di questo dinamismo scientifico, di questa intricata rete di traduzioni e manoscritti sarebbe, più che ignorare la storia, supporre come ipotetico (e abbastanza arlecchinesco) plus valore che un testo come, per esempio, la Commedia potesse essere stato scritto senza il confronto con l’alterità. I rimandi alla cultura araba e islamica, in qualche modo eletta alterità per eccellenza dal mondo occidentale, nell’opera di Dante sono molteplici e sarebbe d’altro canto errato credere che siano rintracciabili solo nella Commedia, dove, per altro, viene messo in scena come un gioco di specchi: Dante si scaglia senza sconti contro la religione islamica, ma (ed è ingenuo credere che non ne fosse consapevole) dissemina il testo di rimandi, linguistici e non, alla letteratura scientifica araba (di questa indagine non si è occupato solo Miguel Asín y Palacios. Maria Corti ha individuato nel Kitāb al-miʿrāj uno degli ipotesti della Commedia, molti anni fa, e ha suggerito di rileggere l’opera, da un punto di vista anzitutto lessicale, alla luce dell’interdiscorsività messa in luce da Bachtin). Molto dell’indagine teologica e delle immagini cosmologiche proposte da Dante nel Convivio è debitore alla filosofia di Averroè (a sua volta riconoscente verso quella di al-Ghazali, di Platone, Porfirio, Aristotele e molti altri), Il Fioreè una sorta di riscrittura del Roman de la Rosee la Vita Nova prende avvio (tra gli altri) su degli evidenti lasciti boeziani.
Muovendo dal substrato dell’opera dantesca alla sua eredità, e tacendo dei notissimi esempi di testi occidentali a lei in qualche modo debitori (i Triumphi di Petrarca, tra i tanti), è opportuno, invece, ricordarne uno meno conosciuto: nel 1932, Muhammad Iqbal, da molti considerato uno dei padri del moderno Pakistan, pubblica il poema Javid-Nama, tradotto magistralmente in italiano da Alessandro Bausani, con il titolo Il Poema Celeste. Il principale ipotesto all’opera è, neanche a dirlo, la Commedia.
Il viaggio, tra il terreno e lo spirituale, questa volta ha come guida Maulana Rumi, celebre poeta persiano. Iqbal non cerca in alcun modo di celare il debito verso la Commedia, né, dopotutto, Dante aveva offuscato il suo verso Brunetto Latini o la cultura araba: la ricerca ossessiva dell’origine che caratterizza noi moderni ha poco a che fare con la letteratura che si confronta da sempre, piuttosto, con l’ambito dell’originalità, ossia non con il disperato bisogno di raccontare qualcosa di nuovo (sarebbe, d’altro canto, possibile?) ma soltanto con quello di narrare, meglio di altri, ciò che già è noto. In certo senso, è proprio questa l’unica origine concessa ai prodotti dell’uomo, di cui la letteratura fa parte, frutto di molteplici suggestioni e mai estranei al mondo: quella di originarsia partire dall’altro.
È un’operazione che caratterizza la letteratura sin dalla notte dei tempi, dalle pagine omeriche, e che ci restituisce alla nostra arcaica sorellanza, alla nostra impossibilità di porci nel mondo come entità svincolate dallo spazio e dal tempo che, sempre, implacabili, avvolgono tutti, noi e gli altri.